Home Speciale Approfondimenti Storia del cinema dell’Estremo Oriente: dagli anni ’30 agli anni ’40

Storia del cinema dell’Estremo Oriente: dagli anni ’30 agli anni ’40

Capitolo 3. La transizione dal muto al sonoro ed il cinema propagandistico.

Gli anni ’20, in Giappone, vedono protagonista un enorme sviluppo artistico del cinema, fino a giungere agli anni a cavallo tra la fine del secondo decennio e la metà degli anni ’30 considerati come la prima grande “età dell’oro” del cinema giapponese. È proprio in questi anni, infatti, che hanno inizio le carriere di alcuni dei più importanti registi della storia del Paese, tra i quali i fondamentali Ozu Yasujiro, Mizoguchi Kenji e Shimizu Hiroshi. In questo periodo, comincia a delinearsi uno stile che diverrà caratteristico del cinema giapponese, in cui si ha sì una ripresa delle tradizioni del teatro, come già accadeva, come abbiamo visto in precedenza, nei primissimi anni del cinema giapponese, ma quelle stesse tradizioni venivano fuse con i modelli del cinema occidentale. La regia, in questo periodo, assume un ruolo sempre più importante e si raffina sempre più, grazie al lavoro di grandi artisti del cinema come il già citato Mizoguchi, che, come diversi suoi colleghi, riserva ai movimenti di macchina un ruolo sempre più importante (si veda, ad esempio, Orizuru Osen, Osen delle cicogne di carta) e che, con la propria arte, prova a poco a poco a smantellare i codici di rappresentazione del cinema orientale. Perché sì, l’ispirazione originaria è quella occidentale ma i cineasti giapponesi vogliono progressivamente realizzare opere puramente giapponesi, non solo dal punto di vista della tradizione e delle storie narrate ma anche da quello formale. Ed ecco che emergono elementi della grammatica cinematografica che diventano ben presto tipici del Giappone, come complicati movimenti di macchina, profondità di campo, montaggio rapido e discontinuo, composizione complessa delle immagini che gioca su strutture stratificate. Uno dei film più importanti di questo periodo è, senza dubbio, Seishun no yume imaizuko (Dove sono finiti i sogni di gioventù?), realizzato nel 1932 da Ozu Yasujiro. È la storia di alcuni ragazzi che devono affrontare il cambiamento dalla vita universitaria a quella lavorativa e i cui rapporti vengono messi a dura prova dalla logica del mondo adulto e della società fortemente classista del Giappone di quel periodo. Oltre alla posizione quasi sempre molto ribassata, come è tipico del cinema di Ozu, è importante notare una tendenza che, all’inizio degli anni ’30, sta prendendo sempre più piede, ovvero quella del frequente ricorso di dettagli, particolari e primi piani, che assumono sia un ruolo comico che uno drammatico, adattandosi perfettamente allo svolgersi della storia; anche il grande equilibrio visivo, che assume un’importanza primaria nell’opera omnia di Ozu, e i movimenti all’unisono diventano uno dei marchi di fabbrica del cinema giapponese a partire dagli anni ’30. Il succitato Mizoguchi, il secondo grande maestro del cinema giapponese del muto, così come altri registi dell’epoca, “affida un ruolo di primo piano ai movimenti di macchina […], allontanandosi in più di una circostanza dalla tradizionale sottomissione ai movimenti profilmici” (Il cinema asiatico. L’Estremo Oriente, Dario Tomasi, p. 16) e in Osen delle cicogne di carta fornisce alcuni lampanti e meravigliosi esempi, in cui la macchina da presa, spostandosi, sostituisce il “taglio” del montaggio, legando insieme, in una sola ripresa, due scene differenti che avvengono in stanze contigue.

Ozu Yasujiro.

Nei primi decenni del ‘900, la Corea è stata soggiogata, a livello politico, dal Giappone, divenendo sempre più una colonia del Paese del Sol Levante, tanto che, dal 1939, ai cittadini non è più concesso di avere nomi coreani e dovranno tutti sostituire il proprio nome con uno giapponese. La Corea diventa una vera e propria costola del Giappone, tanto che il giapponese diventa lingua di stato, giovani coreani vengono arruolati nell’esercito giapponese e la quasi totalità delle testate giornalistiche coreane vengono soppresse. Solo nel 1945, dopo la sconfitta del Giappone per mano degli Stati Uniti, la Corea tornerà ad essere libera. Come è logicamente deducibile, la produzione cinematografica coreana, sviluppatasi, come detto nello scorso “episodio”, solo a partire dalla fine degli anni ‘10/inizio degli anni ’20, fino al momento della liberazione l’industria del cinema coreano è stata fortemente limitata ed influenzata dagli “invasori”. La maggior parte di quei pochissimi film (una cinquantina nel corso di tutti gli anni ’30) realizzati in Corea sono andati perduti e quella manciata sopravvissuta mostra quale fosse la tendenza del cinema di quel periodo: il film diviene un importantissimo mezzo propagandistico e fondamentale per il reclutamento di giovani per l’esercito giapponese, che, come detto, attingeva a piene mani dalla gioventù coreana e che costringeva le donne, private dei propri uomini, a fare da “intrattenitrici” per i soldati giapponesi. Il cinema coreano degli anni ’30 era impegnato a dipingere l’esercito come una grande famiglia in cui tutti si aiutavano e venivano trattati con i guanti, distorcendo fortemente la realtà. Il perfetto esempio di questa tendenza è Byeong jeongnim (Dear soldier) di Bang Han-joon, realizzato nel 1944, che racconta la storia di tre giovani coreani dal nome giapponese e che ritrae una vita quasi paradisiaca nella caserma, con gli ufficiali gentili con i sottoposti, dividendo con loro il cibo e fumando insieme a loro dopo mangiato e, addirittura, costringendo uno dei protagonisti a prendersi qualche giorno di permesso, nonostante la sua riluttanza, perché il superiore è preoccupato per la situazione familiare delle sue reclute. La realtà più cruda e devastante della vita nelle caserme viene completamente omessa, così come l’azione bellica vera e propria, in modo da convincere i giovani coreani e le loro famiglie ad arruolarsi, illudendoli e costringendoli ad affrontare un’esperienza ben diversa da quella mostrata nel film. Appena dopo la liberazione dal Giappone, Choi In-kyu realizza Jayu manse (Hurrah! For freedom), un film divenuto ben presto il manifesto del cinema della rinascita coreana, un’opera esplicitamente politica ma che non rinuncia alla propria natura di film popolare e, dunque, assume connotati propri del cinema d’azione e del melodramma. Giunto a noi incompleto, racconta la storia di Choi Eun-gi e dei suoi compagni partigiani che lottano contro l’oppressore. Il gruppo è diviso tra chi vorrebbe attendere la vittoria degli Stati Uniti sul Giappone per poter tornare liberi, senza ulteriore spargimento di sangue, e chi, invece, vorrebbe intervenire con la violenza per scacciare gli invasori (Choi è sostenitore di quest’ultima corrente di pensiero).

Choi Eun-gi ferito in Jayu manse (Hurrah! For freedom).

Anche il cinema cinese di questi anni è fortemente influenzato, per non dire del tutto sottomesso, dalla scena politica, dominata da Mao, il quale stabilì anche che direzione avrebbe dovuto assumere la settima arte, la quale si trasformò in un cinema di Stato che doveva descrivere la realtà sociale e doveva contribuire a far sopravvivere il sistema per come era. Le storie narrate dai film dovevano appartenere a uno dei tre argomenti stabiliti dal Presidente Mao: la rivoluzione cinese, la storia della Cina e la creazione di una società socialista. Ciò comporta che gli eroi del cinema di questo periodo appartengano alle classi più basse della popolazione, come contadini, donne, operai, soldati e tutti coloro che divennero i protagonisti della rivoluzione. Liu Hulan è stata una delle figure più importanti della rivoluzione maoista, un’eroina, un simbolo della guerra civile cinese, elogiata anche dallo stesso Mao, e la sua storia divenne il soggetto di un importante film di quest’epoca: Liu Hulan di Feng Bai-lu (1950). La Hulan del film non sembra quasi appartenere al genere umano, è quasi una supereroina, un modello per tutti le cui azioni non sono espressione collettiva (come accadeva in altri film maoisti) ma estrinsecazione di un individualismo eroico inimitabile al quale, però, bisogna ispirarsi e che si deve cercare di emulare, per quanto possibile. In un certo senso, l’eroismo di Liu Hulan è piuttosto simile ad alcuni eroi del cinema realista sovietico, modelli ineguagliabili ma fonte d’ispirazione.