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Senza lasciare traccia – La Recensione

In cosmologia il Protoammasso è una nube primordiale di stelle da cui si suppone abbiano avuto origine le galassie dell’Universo. I corpi celesti che ne fanno parte hanno assi di rotazione allineati. In pratica non interdipendenti tra di loro. Parliamo di una relazione arcaica e appunto universale come quella tra padre e figlia.

Will (Ben Foster)e Tom (Thomasin McKenzie) ad esempio amano guardare le stelle. Ciondolano come se non sapessero dove andare. Ma non è così. Sembrano fuggire da un nemico che non esiste o sembra non esistere. Non come i personaggi mccarthyani di The Road. La scelta di Will e di Tom è dettata dalla volontà di non conformarsi allo stile di vita imposto dalla società. Ed allora padre e figlia si sono rifugiati in una foresta in Oregon vicino Portland. Vivono con quello che trovano e di tanto di tanto entrano in città per assecondare gli appetiti adolescenziali della giovane Tom. Magari un pezzo di cioccolata o della carne essiccata.

Tom guida e protegge la figlia come solo un padre sa fare ma in realtà anche lui avrebbe bisogno di aiuto. Veterano di guerra affetto da PTSD (il disturbo da stress post-traumatico), l’uomo non può nulla quando un giorno i servizi sociali intervengono imponendogli uno stile di vita più consono ad un essere umano, ma soprattutto ad un’adolescente. Così i due protagonisti della vicenda si ritrovano a vivere improvvisamente in una casa. A Tom è anche concesso di lavorare per la fabbricazione di alberi di Natale. Niente più vicino a quel consumismo borghese che tanto odia.

Ma è proprio da questa illusoria sicurezza dell’American Dream che l’uomo sta fuggendo. Dopo un breve tentativo di mettere radici e trovare una certa stabilità domestica, i due riprendono la loro marcia e la vita di sempre. Ma Tom è stanca e un po’ di cioccolata non è più sufficiente a distrarla dalle comprensibili voglie di vivere un’esistenza normale. Una casa, una scuola e magari un coniglio in giardino.

Ispirata al romanzo My Abandonment di Peter Rock e che a sua volta si è rifatta ad una storia/leggenda molto nota a Portland, Leave No Trace è l’opera terza della regista americana Debra Granik. Dopo il suo esordio con Down to the Bone, l’autrice ritorna alle atmosfere del bellissimo Un gelido inverno con il quale si era imposta al pubblico internazionale ed aveva lanciato in orbita la star Jennifer Lawrence.

Il suo è un cinema fatto di figure femminili molto forti e di attrici talentuose (Farmiga/Lawrence/McKenzie). Ma soprattutto il suo è un cinema primordiale che pone al centro del suo universo l’indissolubilità dei rapporti familiari a fronte delle conflittualità socioculturali.

Sommariamente questa nuova pellicola s’inserisce in un filone di film come Into the wild o ancor di più Captain Fantastic. Con qualche vezzo in meno però, senza le pose da cinema indipendente. L’approccio della Granik è quasi documentaristico, aderente e necessario.

Senza lasciare traccia conferma che il talento di questa autrice (classe 1963) non è casuale e il suo percorso molto ben definito. La Granik asciuga fino all’osso i dialoghi e sottrae alla storia come solo i grandi autori sanno fare, realizzando un piccolo ed emozionante gioiello che a dispetto del nome, resterà indelebile nella memoria dello spettatore.