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Rambo: Last Blood – La Recensione

Già il titolo è un programma Rambo: Last Blood, che gioca ovviamente col nome del primo capitolo della saga “First Blood” (in Italia semplicemente Rambo). Quindi questo, in teoria, sarebbe un addio.

La storia segue la struttura tipica dei film precedenti: c’è una missione da compiere e l’unico scopo è quello di uccidere i cattivi e riportare tutti a casa sani e salvi. Questa volta per Rambo lo scopo ha un nome Gabrielle (Yvette Monreal), un giovane e bella ragazza di origini messicane che negli ultimi anni è stata per John la sua ragione di vita, la figlia che non ha avuto. Siamo a Bowie, Arizona, dove tutto ha avuto inizio perché proprio in questa cittadina al confine col Messico, lo scrittore David Morrell ha idealmente fatto nascere il nostro amato reduce del Vietnam. Gabrielle vuole conoscere il suo vero padre. Senza farlo sapere a nessuno, la ragazza decide di andarlo a trovare, ma una volta arrivata finisce nelle mani di un cartello messicano dedito al rapimento e alla prostituzione di giovani e belle adolescenti. Per Rambo c’è una sola cosa da fare.

La trama diventa prevedibile dopo circa 20 minuti. Ma diciamolo: non si guarda un film come Rambo per la storia.

Sicuramente il fascino del personaggio che si aggirava per le strade di Hope nel 1982 c’è ancora. Il giovane regista Adrian Grunberg, alla sua opera seconda dopo Viaggio in paradiso (Get the Gringo) con Mel Gibson, affronta il tutto con severa costipazione action per circa 70 minuti, condensando il film nel suo ultimo quarto d’ora. A questo punto si apre ad un finale granguignolesco, tarantiniano ed esteticamente feroce nella sua violenza gore. Talmente crudo e sporco da ricordare gente come Eli Roth o Robert Rodriguez. Forse non è un caso visto che ormai sembra certo che sarà quest’ultimo a dirigere la serie tv prodotta da Stallone e ispirata al personaggio di Cobra.

Insomma una chiusura col botto. Tra esplosioni, trappole mortali e corpi maciullati. Poi i titoli di coda strappa lacrime per regalare al personaggio di Rambo una chiusura simile a quella di Rocky.

Ma questi pirotecnici minuti finali non salvano l’intero film. Nonostante le buone intenzioni e l’ottimo cast (Paz Vega e Sergio Peris-Mencheta su tutti), la pellicola è infatti approssimativa e cafona. Non che Rambo sia mai stato Wes Anderson, ma ci si poteva aspettare quel tipo di sensibilità che Stallone ha riservato per congedare il pugile di Filadelfia ad esempio. La storia è pasticciata, ruota su se stessa e si perde in espedienti narrativi inutili e scontati. Forse è colpa della sceneggiatura. O forse è semplicemente il caso di dire che tra Rocky e Rambo, tra queste due grandi icone pop degli anni ’80, il secondo è sempre stato il figlio meno amato da Sly. Anche se da buon genitore, lui non lo ammetterà mai, Stallone si è sempre identificato maggiormente nella storia del pugile italo americano.

Ma per fortuna la saga è finita. Almeno si spera perché come diceva il colonnello Trautman parlando di Rambo: “Dio solo sa cos’altro è capace di fare.”