Home Rubriche Outsider Polytechnique: quando la mdp è un’arma

Polytechnique: quando la mdp è un’arma

Albert Camus diceva: “Non essere amati è solo sfortuna; non sapere amare è una tragedia.”

E di tragedia si parla.

Il 6 dicembre 1989 nel Politecnico di Montréal in Québec, Canada, Marc Lépine (interpretato da Maxim Gaudette), uccide quattordici ragazze del liceo e si toglie la vita. Non è uno spoiler ma i fatti realmente accaduti nel celebre Massacro del Politecnico di Montréal. Lo studente sparò a sangue freddo solo sulle ragazze, colpevoli, nella sua mente distorta, di volere la parità di diritti scolastici e non. Mancanza di amore, disagio sociale, squilibri mentali. Non è importante, perché la terza prova del regista canadese Denis Villeneuve, non si interroga sulle ragioni, ma si concentra sui fatti. Abbracciando a pieno la tecnica narrativa dello “Show, don’t tell”, l’autore prende le distanze, raffredda, sfuma e mette in scena un’opera formalmente asettica con un b/n che fa a cazzotti con gli eventi violenti e granguignoleschi di quel lontano inverno fine anni ’80.

Fellini diceva: “Non voglio dimostrare niente. Voglio mostrare” e Villeneuve lo trasforma in un dogma stilistico che ritroveremo anche in alcune sue opere future come La donna che canta (Incendies) del 2010 e Arrival del 2016.

Il tema dei massacri scolastici è un argomento caldo in tutto il Nord America da ormai 60 anni quando il giovane Charles Whitman, fece una strage dalla torre della Texas University di Austin nel lontano 1966. Figura seminale che ispirò Bersagli di Peter Bogdanovich, Panico nello stadio con Charlton Heston, L’uomo sul tetto di Bo Widerberg e il film TV La torre della morte, interpretato da Kurt Russel.

Più di recente Michael Moore indagava sul fenomeno nel bellissimo “Bowling a Columbine”, ma parliamoci chiaro: Polytechnique è un più o meno dichiarato omaggio a Elephant di Van Sant.

Dal film del maestro indie del cinema americano, la pellicola ruba gli espedienti narrativi, quanto la tecnica registica e il già citato approccio asettico. Tutto al fine di lasciare, appunto ai fatti, il giudizio morale dello spettatore. La steady si muove per i freddi corridoi dell’Istituto come atto subliminale di predazione, un carnivoro e le sue innocenti prede. Il silenzio rotto dagli spari richiama l’effetto sonoro del triciclo del piccolo Danny in Shining. Anche li una steady in cerca di vittime.

La ricercatezza registica del film riesce, grazie alla geometria asettica dell’Istituto, a muoversi metaforicamente insieme alla tragica e fredda lucidità dell’assassino. Un manierismo claustrofobico e estetizzante che troveremo in forme diverse nelle successive opere di Villeneuve. Alla luce di ciò, non meraviglia il modo in cui si sia evoluta la sua carriera del regista canadese che ha abbracciato progetti cinematografici come Blade Runner 2049 e il remake del lynchiano Dune (in uscita nel 2020).

Nel complesso il film è una rasoiata secca e precisa, merito dei già citati pregi stilistici, ma anche della durata snella (appena 77 minuti).

“Show, don’t tell” dicevamo. Beh questo Villeneuve ha ancora molto da mostrare e poco da dimostrare.