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Personal Shopper: illusione e metacinema

Maureen è un’americana che vive a Parigi, non fa un lavoro qualsiasi, lei è la galoppina di Kira, un’atelier design molto importante. In pratica viaggia per tutta l’Europa nelle migliori boutique di Parigi, Milano e Londra. E’ una personal shopper tormentata dalla recente morte del fratello gemello Lewis. E da lui è in attesa di un segnale poiché entrambi erano due medium. Esploratori dell’ignoto e di realtà ultra-fenomeniche che sfuggono alla comprensione.

Nella stessa maniera, il film indaga in uno spazio buio che sta oltre la telecamera, uno spazio che esiste oltre la narrazione. Illusione e metacinematografia che scavallano l’eterno dualismo realtà/fantasia, vero/falso, vita/cinema. Una bisettrice oltre e intorno alla quale da sempre si sono mossi prolifici autori.

Terreno fertile di opere, magari imperfette, ma spesso seminali per il cinema dell’avvenire. Film indagatori che non voglio realmente raccontare bensì suggestionare, indicando un diverso cammino dove in futuro potrebbe spingersi la settima arte pur di restare tale e non doversi confrontare con l’industria dell’intrattenimento seriale (in ogni senso).

Ed allora capita a fagiolo la seconda enigmatica e buia collaborazione d’autore tra il regista parigino, classe ’55. Olivier Assayas e l’attrice Kristen Stewart, dopo Sils Maria del 2014. Lui è un autore contorto, tra i più importanti registi francesi viventi, anche se la nuova scuola incombe e lui ha dimostrato di non essere sempre a fuoco. Lei magnetica e bellissima, con quella faccia un po’ scazzata di chi sa di essersi definitivamente affrancata dal personaggio di Bella Swan. Merito suo e di registi come Sean Penn, Walter Salles, Woody Allen, Ang Lee e ovviamente lo stesso Assayas.

E allora la bisettrice è ancora più evidente, il dualismo ancora più a fuoco. D’altronde cosa c’è di più dicotomico di un rapporto gemellare diviso dalla morte? Cos’è tanto in contrapposizione come la vacuità del culto dell’apparenza della moda e la profonda e inquietante indagine della vita ultraterrena.

In breve il film diventa un thriller orrorifico che cerca di osservare al di là del muro posto dalla stessa esistenza del film. La realtà impressa nel negativo e il negativo che comunica nella realtà. Una ghost story non esente da espedienti fenomenologici derivativi e involontariamente comici, ma che riesce, non si sa come a far percepire allo spettatore, un profondo baratro di angoscia.

Pochi mesi dopo un’altro regista parigino, François Ozon realizzerà L’Amant double, aggiornamento kubrikiano del tema della gemellarità. Ma l’operazione di Assayas non vuole essere un esercizio di stile per compiacere i nostalgici (il film a Cannes è stato accolto con bordate di fischi) ma una scomoda e non immediata riflessione sui tratti psicoanalitici di una donna e il suo alterego ectoplasmatico.

I suoi desideri più inconfessabili, anche quelli sessuali, primordiali. Assayas nasconde però dietro il volto della “Diva” Stewart, gli spazi bui dove imprimere la pellicola.

Forse ad indicare il nuovo corso del cinema.