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Il Passato – Lo sguardo di Asghar Farhadi

Nel 2011 con “La Separazione”, Orso d’oro alla 61a edizione del Festival di Berlino, il regista iraniano Asghar Farhadi, ha fatto entrare lo spettatore nella quotidianità e nell’universalità di una coppia alto borghese di Teheran in via di rottura. Con “Il Passato” l’autore riprende il discorso da dove era stato interrotto. In mezzo c’è sempre una coppia, questa volta più umile e maldestramente occidentalizzata.

Un complesso nuclei familiare chiamato ad affrontare il passato e la rottura con esso. La pellicola si apre con uno degli incipit più folgoranti visti al cinema negli ultimi anni: i due ex amanti prima non riescono a parlarsi attraverso un vetro in aeroporto (incomunicabilità tutta bergmaniana) e qualche istante dopo, in auto, inserendo la retromarcia in auto, per poco non vanno a sbattere. Sarà così per tutti i restanti 130 minuti di questo autentico capolavoro diretto, indagatore e disseminato di allusioni e metafore.

Il cinema farhadiano focalizza l’attenzione sulla tragedia quotidiana, sul noi collettivo, un soggetto interconnesso ai nostri più intimi rapporti sentimentali e familiari. Un’indistricabile rete sinaptica con la quale ogni uomo e donne di età e culture diverse, deve fare i conti nel corso della propria esistenza.

Il Kammerspiel del regista iraniano è di un’autenticità disarmate. Lo era stato con About Elly , con La Separazione e lo è anche con Il Passato.

La trama vede il protagonista Ahmad (Ali Mossaffa), fare ritorno in Francia dopo quattro anni passati in Iran. Lo scopo di questa visita è la formalizzare del divorzio con Marie (Bérénice Bejo, meravigliosa attrice di The Artist), che nel frattempo vive con un nuovo compagno, Samir (Tahar Rahim, già visto nel Profeta di Audiard) e il suo bambino, insieme a due figli nati dal precedente matrimonio di Marie. Samir otto mesi prima si era rifatto una vita con Marie dopo il tentato suicidio della sua ex compagna, ora in coma. Ma la visita di Ahmad sposta i delicati equilibri di questa insolita famiglia, facendo riemergere dolori mai sopiti e storie mai raccontate.

Il minimalismo estetico, la sobrietà della narrazione e la “affective memory” stanislavskiana dei suoi attori (occhio alla recitazione della Bejo) sono i punti di forza del cinema farhadiano.

Il risultato è un melodramma maturo, attento alle dinamiche di coppia e quelle genitoriali, quanto al contesto socio culturale. Una pellicola tesa alla denuncia tout court di un endemico e malato modello di gestione dei fallimenti familiari. Questo, ma soprattutto una nuda analisi della complessità dell’animo umano e delle sue radici culturali e sentimentali.

Come a dire che siamo si interconnessi al nostro passato e lo saremo per sempre, ma anche per questo e per amare, servirebbe una patente di guida.