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Nomadland – Storia di una donna americana – La Recensione

Reietti della società statunitense che subiscono ancora le conseguenze della crisi finanziaria del 2008, drop out in una patria che li ha traditi, incarnando i peggiori valori del capitalismo moderno, a partire da un astenico sistema pensionistico e una disumana ed elitaria assistenza sanitaria.

Sono loro i protagonisti di Nomadland, splendido affresco della giovane regista di origini cinesi Chloé Zhao che torna a raccontare la frontiera americana, dopo Songs My Brothers Taught Me del 2015 e due anni dopo The Rider – Il sogno di un cowboy. Pellicole che hanno molto in comune tra di loro. Le tematiche certo, cinéma vérité ai margini della società statunitense, ma soprattutto lo stile e il rigore sacrificale della mise en scène.

Le scelte coraggiose di Chloé Zhao permettono ad un’immensa Frances McDormand di non recitare ma di vivere questa splendida pellicola.

La sua Fern è una donna sulla 60ina, senza lavoro e vedova, che vive nella sua piccola roulotte, ma che non si considera homeless bensì “houseless”, incarnando i vecchi valori dell’America di frontiera.

L’attrice dopo aver combattuto per ottenere una personale giustizia in Tre manifesti a Ebbing, Missouri, in Nomadland è costretta ancora una volta ad elaborare un lutto, ma nel farlo non racconta solo la sofferenza di una donna, ma di un intero paese. Ed allora ritornano in mente le parole che l’attrice ha detto a Venezia: “Negli ultimi dieci anni ho imparato ad apprezzarmi grazie a ciò che ha scritto di me un giornalista: guardare il suo volto nei film è come visitare un parco nazionale americano”.

La sua spontanea aderenza al personaggio di Fern rende Nomadland un’esperienza immersiva unica nel suo genere, forse una delle sue migliori prove di sempre. La regista si avvale solo di due veri attori: David Strathairn e appunto la McDormand, affidandosi a questi veri nomadi moderni come Linda May, Bob Wells e Charlene Swank, appunto, nel ruolo di se stessi.

Ma la coerenza delle sue scelte non si ferma solo al cast, ma si esalta anche dilatando i tempi della pellicola e prendendosi tutto lo spazio metafilmico per esaltare la fotografia di Joshua James Richards e gli esterni cupi e dolorosi di un’America tanto distante dalla patinata epica fordiana e dalle agiografie statunitensi.