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Noi (Us) – La Recensione

“Perciò, così parla l’Eterno: Ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò.”

Jeremiah 11:11


I coniugi Gabe (Winston Duke) e Adelaide (Lupita Nyong’o) e i figli Zora (Shahadi Wright Joseph) e Jason (Evan Alex) decidono di passare qualche giorno a mare nella loro residenza estiva. Adelaide accetta controvoglia di andare in spiaggia a trovare i loro amici Josh e Kitty (Tim Heidecker e Elizabeth Moss) e le loro due gemelle. Sembra tutto rilassante ed idilliaco, ma in un attimo il piccolo Jason viene perso di vista dai genitori.

Alla fine per fortuna il ragazzino si era solo allontanato un attimo per andare in bagno, ma ciò che colpisce però è l’eccessiva reazione della madre Adelaide. C’è qualcosa che in effetti la donna ha taciuto per molti anni. La località di Santa Cruz e in particolare quella spiaggia, sono legate ad un suo personale ricordo d’infanzia. Qualcosa di terribile, di cui la donna non ha mai parlato con nessuno. La sera i quattro tornano a casa, si preparano ad andare a dormire. In giardino spuntano fuori quattro persone, che sembrano essere male intenzionate. Il passato di Adelaide sta ritornando ed un nuovo incubo ha inizio.

Altro, della trama di questo film, non si può dire. Lo spoiler alert è già ad altissimi livelli.

“Us” è il nuovo film di Jordan Peele, una pellicola tra le più attese della stagione in corso. C’era infatti molta curiosità per vedere l’opera seconda di questo regista/predestinato che con Scappa- Get Out ha vinto il premio Oscar per la miglior sceneggiatura nel 2018. C’è chi voleva conferme e chi, non avendo amato la sua opera prima, era pronto a puntare il dito e dire: “ve lo avevo detto”! Ma citando proprio Adelaide nel film: “Quando punti il dito verso qualcuno, ricorda che tre dita sono puntate verso di te”. Con “Us” l’autore allarga esponenzialmente gli orizzonti della sua precedente prova.

Diciamo che se Get Out era uno Stradivari, “Us” è l’intera Berliner Philharmonisches Orchester e Jordan Peele è il maestro Herbert von Karajan.

Il regista non si accontenta di girare con simmetria ed eleganza kubrickiana un thriller sul genere “home invasion”, che però non ha nulla a che fare con il capolavoro di Haneke. Non si accontenta neanche di instillare dubbi e mantenere salda la tensione fino, e anche dopo i titoli di coda, neanche fosse un novello Hitchcock. E si diverte a citare spudoratamente anche Argento, Romero, Carpenter e Spielberg.

Peele gioca insomma col cinema di genere. Dissimula ed elude banalità e cliché, spiazzando lo spettatore con qualche goccia di humour nero. Ci mostra un mondo fortemente radicato a terra, ai luoghi, ai personaggi e alle loro ancestrali paure, per poi catapultare lo spettatore in un mondo onirico e orrorifico.

Adelaide come Alice nel fottuto mondo delle atrocità. Con tanto di conigli da seguire e pertugi dove entrare in un mondo parallelo fatto di doppelgänger e visioni lynchiane.

Il suo cinema, pensato, ma viscerale, ha anche molto da dire a livello sociale. La sua storia, com’era stato anche per Get Out, è una lucida riflessione sulla società americana. Tanto che viene da ridere a pensare che la distribuzione italiana si sia presa la briga di tradurre “Us” con “Noi”, quando ovviamente l’autore ha voluto giocare con il doppio senso “United States”.

Peele infatti prende spunto da un evento benefico realmente avvenuto la domenica 25 maggio del 1986, quando 6 milioni e mezzo di americani, tenendosi per mano, crearono una catena umana che attraversava tutti gli States, da costa a costa. Molti di quei milioni raccolti in beneficenza, non arrivarono mai ai bisognosi. L’ipocrisia reaganiana e gli atavici sensi di colpa della bourgeoisie WASP, che poi nel film si traducono con tante piccole perle black ed incazzate con i “Dear White People” e col sistema.

Come quando in un impianto simil Siri, Elizabeth Moss stramazzata a terra, cerca di chiamare la polizia e invece parte Fuck tha Police degli N.W.A.

Esilaranti “cazzate da bianchi” come dice Gabe.

Anche se, a tratti, qualcosa nelle scorribande oniriche di Peele ci sfugge, resta solido il messaggio finale. I tempi cambiano e anche se la famiglia afroamericana può dare l’impressione di essere una benestante e “sbiadita” white family, come sostiene Spike Lee da sempre, le cose non sono cambiate . I doppelgänger che vivono nel tunnel sottoterra come reietti, non sono altro che la nostra memoria storica. “Noi”, anzi “Us” è l’America che non dimentica i corpi linciati degli schiavi appesi sugli alberi, come “Strange fruit”, nella celebre canzone di Billie Holiday.