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Mank (2020) – La Recensione

Benvenuti a Hollywood, dove tutto è vero, anche il falso. Dove “puoi fare tutto se hai il potere di far credere che King Kong è alto dici piani o che Mary Pickford è vergine a 40 anni”.

Un posto dove ti pagano mille dollari per un bacio e cinquanta centesimi per la tua anima come diceva Marilyn.

La storia un po’ la conosciamo. Dopo la burla radiofonica degli alieni, nell’estate del 1939, un giovanissimo Orson Welles firma il contratto più invidiato da registi e sceneggiatori dell’epoca. La RKO Pictures in cambio di una montagna di soldi e della totale libertà creativa su ogni aspetto del suo lavoro, vuole tre pellicole firmate dall’enfant prodige di Kenosha. Dopo aver abbandonato Cuore di Tenebra (“l’opera minore di Joseph Conrad”) e Smiler with a Knife, Welles decide di dedicarsi ad un soggetto originale, affidandosi al navigato Herman J. Mankiewicz. Neanche la moglie di questo geniale autore sa dove si debba mettere quella zeta, quindi tutti lo chiamano Mank.

Intellettuale irriverente, colto ed alcolizzato. Mank beve per esorcizzare i suoi mostri e per intorpidire il dolore che gli provoca il patto faustiano tra lui e Hollywood e tra Hollywood e il potere economico e politico di gente come William Randolph Hearst .

Il nuovo film di David Fincher non è solo un portrait elegante e sagace su uno degli sceneggiatori più importanti della storia del cinema, ma narra anche la genesi di Quarto Potere.

Fincher mette in scena uno script del padre Jack Fincher, che risale agli anni ’90, ma che viene riadattato per attualizzarlo. Partiamo dunque dalla sceneggiatura brillante e piena di battute ficcanti e modernissime.

Mank contestualizza la nascita di Citizen Kane tra i fantasmi della Grande Depressione del ’29 e la controversa campagna elettorale per il governatore della California del ’34, in cui Hollywood nella persona di Louis B. Mayer delegittima Upton Sinclair, reo di essere “troppo socialista” a favore del repubblicano Frank Merriam. Dietro questa operazione ovviamente c’era Hearst/Kane. David Fincher approfitta del quadro politico del periodo per attualizzare frasi come “se continui a dire cose false alla gente gridandole a lungo è probabile che ti credano”, per rendere la storia americana un “cinnamon rolls”. Dinamiche politiche e sociali che si ripetono in maniera molto simile tra loro.

Quasi come in una fumosa writers room della Paramount proprio durante gli anni della golden age, Mank è anche una straordinaria opera corale in cui oltre a Mankiewicz interpretato dal solito sontuoso Gary Oldman (una delle sue migliori prove di sempre) spiccano anche i personaggi di Welles (Tom Burke), Hearst (Charles Dance), Marion Davies (una perfetta ed eterea Amanda Seyfried), Irving Thalberg (Ferdinand Kingsley), Rita Alexander (Lily Collins), Sara Mankiewicz (Tuppence Middleton) e Louis Mayer (un eccezionale Arliss Howard).

Da un punto di vista squisitamente tecnico Fincher è un perfezionista, maniacale, virtuoso al limite del manierismo formale. Il suo rigore nel voler ricreare l’estetica e persino l’audio della golden age dei primi film sonori è una (perdonate il francesismo) “paraculata” di estremo gusto. Un vezzo forse ma che fa gioire gli occhi di qualsiasi cinefilo. Pur cambiando il rapporto del film da un 1,37:1 di Quarto Potere al 2,20.1, cita esplicitamente il capolavoro di Welles in più modi, partendo dalle inquadrature, le luci di Erik Messerschmidt, fino al raffinato contributo musicale di (neanche a dirlo) Trent Reznor e Atticus Ross.

Mank insomma si presenta come un timido behind the scenes, uno stiloso onanismo metacinematografico, e finisce con l’essere un potente racconto corale e una stratificata metafora della società americana, dei giochi di potere delle poltrone che contano e del ruolo del cinema oggi e su come debba reinventarsi per tornare al suo antico ed accecante splendore.

Da Oscar.