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Lazzaro Felice – Recensione

Lazzaro è un contadino di appena vent’anni. Vive in una comunità di braccianti, una famiglia di 54 anime. Anziani e bambini convinti di dover sottostare ancora al rigido “contratto” di mezzadria che li lega alla perfida marchesa Alfonsina De Luna. Come se il tempo si fosse fermato agli anni ’50.

La comunità raccoglie pacificamente le foglie di tabacco, finanziando il piccolo impero della marchesa e del suo erede Tancredi. Il giovane, viziato e annoiato, stringe amicizia con Lazzaro. Ma il loro non è un rapporto alla pari. L’erede De Luna convince l’ingenuo campagnolo a fingere il suo rapimento, nella speranza di rimediare un miliardo e scappare dal suo destino scritto. Ma le cose andranno diversamente.

A poche settimane dalla morte di Ermanno Olmi, Alice Rohrwacher trionfa alla 71ª edizione del Festival di Cannes, vincendo il prestigioso Prix du scénario. Il tutto grazie ad una pellicola che per molti versi ricorda L’albero degli zoccoli, capolavoro con il quale Olmi vinse proprio la Palma d’oro, esattamente 40 anni fa. In comune le pellicole hanno il rigoroso approccio documentaristico alla vita stagionale dei contadini, legati ai frutti della terra e costretti ad un’esistenza umile e faticosa.

E’ proprio a questo punto che la Rohrwacher compie però una audace parabola biblica, facendo resuscitare il suo Lazzaro 30 anni dopo, per permetterci di scoprire che in fondo l’Italia non è poi tanto cambiata. Ci sono sempre vessatori e vessati e siamo tutti in balia del “Grande Inganno”.

La regista, alla sua terza prova dopo Corpo celeste e Le meraviglie, compie un miracolo.

Una pellicola arcaica e colta con uno sguardo rivolto al nostro passato cinematografico e uno al futuro socio economico del bel paese. Gli stilemi del suo cinema si rifanno ai grandi classici della nostra tradizione.

Da Zavattini/De Sica a De Santis, dai Taviani a Pasolini, dal già citato Olmi a Ettore Scola.

A tal proposito per Lazzaro Felice valgono un po’ le parole di Moravia dopo aver visto Brutti, sporchi e cattivi, capolavoro del 1976, firmato proprio dal regista di Trevico: “In questo notevole film, l’insistenza sui particolari fisici laidi e ripugnanti potrebbe addirittura far parlare di un nuovo estetismo in accordo coi tempi, che viene ad aggiungersi ai tanti già defunti. Quello del «brutto», dello «sporco» e del «cattivo». Comunque siamo in un clima piuttosto di contemplazione apatica che di intervento drammatico”.

“Brutti”, può darsi. “Sporchi”, sicuramente. Ma la cattiveria nel film della Rohrwacher, sta proprio nel conflitto sociale tra le piaghe delle mani dei braccianti, a fronte della “noia patrizia” di pasoliniana memoria.

Nonostante il tema consumato e lo stile derivativo, il sentito “cadeau” alla nostra tradizione cinematografica, Lazzaro Felice sposta l’asticella in avanti, al punto tale da essere ragionevolmente certi che la Rohrwacher si stia apprestando a diventare una delle più solide e mature registe europee.

Il suo approccio filmico, metaforico e spirituale, è tutto improntato sul “realismo magico” jodorowskyano. L’autrice si nutre delle principali tendenze letterarie del secolo breve a lei non coeve, dal Neorealismo al Postmoderno.

Un sogno ad occhi aperti che riesce anche a trovare il tempo per far ridere amaro delle disgrazie altrui, che poi sono anche le nostre, ogni volta che, quella macchina infernale chiamata Bancomat, stampa il nostro estratto conto.

Capolavoro.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo