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La donna dello scrittore: fuga da Marsiglia

2018 (presumibilmente). La Germania invade la Francia (di nuovo). Ovunque si fa pulizia etnica e rastrellamenti. Georg è un rifugiato tedesco che da Parigi è costretto a scappare a Marsiglia. La speranza è quella di allontanarsi dalle autorità imposte che cercano di far piazza pulita di chi non ha un visto.

Non si parla mai di ebrei, sembra però essere tutto sottinteso. Ma la speranza è anche e soprattutto quella di farsi una nuova vita, fuggendo o innamorandosi. Magari un posto caldo in Sud America o più a nord a New York. Tutto pur di fuggire da questi nazisti 2.0. Il viaggio della speranza di Georg ha un inaspettato colpo di scena. Per una fortuita casualità viene infatti scambiato per uno scrittore di nome Weidel. A causa della morte di quest’ultimo infatti Georg entra in possesso di un manoscritto, alcune lettere e un visto dell’ambasciata messicana. Tutto però è destinato a cambiare quando Georg s’invaghisce di Marie, una donna misteriosa ed affascinante che l’uomo continua ad incontrare tra le calle e una bettola di Marsiglia. Georg si troverà ora davanti all’arduo bivio tra amore e libertà.

Dopo La scelta di Barbara (2012) e Il segreto del suo volto (2014), il regista Christian Petzold , nome di spicco della nuova scuola di Berlino, confeziona un melò elegante e d’antan che riecheggia Casablanca. Col capolavoro di Michael Curtiz il film condivide non tanto le atmosfere fumose ma lo spirito. La vita concepita come un perenne stato di transumanza esistenziale. Una fuga in cerca di un qualcosa di diverso, per necessità e/o anche per pura saudade pessoana. L’esigenza di una fugace trepidazione, un refolo di vento, qualcosa tra passato e futuro che dia un senso alla propria misera esistenza.

Ciò che salta subito all’occhio di questa pellicola è l’intensa interpretazione di Paula Beer (che avevamo già visto in Frantz di François Ozon) e soprattutto il giovane talento Franz Rogowski, una sorta di Joaquin Phoenix teutonico. Ricordatevi questo nome perché ne sentiremo presto parlare in Freaks Out, nuovo film di Gabriele Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot) e in Radegund di Terrence Malick.

Ma il vero punto di forza del film di Petzold è senza dubbio la geniale intuizione di rielaborare il romanzo Visto di transito di Anna Seghers e ambientarlo ai giorni d’oggi. In tal modo l’autore tedesco ha la possibilità di offrire una nuova chiave di lettura ai temi affrontati dal racconto della Seghers attualizzati dai risorgenti nazionalismi e dai preoccupanti sovranismi europei.

Ma Petzold non si ferma qui e, come nelle sue precedenti prove, pone al centro dell’attenzione la fatalità degli eventi che mettono alla prova l’esercizio del libero arbitrio, con tutte le implicazioni etiche e morali che esse comportano. Nel farlo l’autore attinge concettualmente al cinema dei Dardenne e formalmente ai codici noir dei classici della Old Hollywood (La fiamma del Peccato di Billy Wilder tra i tanti).

Non tutto ovviamente funziona. Al fumoso manierismo di Petzold ci siamo ormai abituati. A ciò si aggiunge anche l’incapacità (ma potrebbe essere anche una scelta) di esporsi con soluzioni narrative che facciano a meno dell’ingombrante voice over.

Poco toglie comunque ad un film colto e fascinoso riassunto dalla meravigliosa Road To Nowhere del Talking Heads che recita:

“Beh, noi sappiamo dove stiamo andando, ma non sappiamo dove siamo stati. E sappiamo quel che sappiamo, ma non sappiamo dire ciò che abbiamo visto”.