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Venezia 73: Arrival – La recensione

É la natura del tempo, nella sua dimensione più fisica ed astratta la chiave dell’ultimo film del canadese Denis Villeneuve,  Arrival. 

L’arrivo è quello, improvviso, di astronavi aliene: la dottoressa Louise Banks (Amy Adams), esperta linguista, è quindi chiamata ad interpretare i segnali che questi esseri emettono ad ogni contatto con gli umani, coadiuvata dallo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner).

Il lento costruire di un ponte comunicativo  con gli alieni ci mostra, contestualmente, il dipanarsi della storia di Louise, che in apparenza pare plasmata da una tragedia devastante.

Ma dopo i primi approcci con le entità extraterrestri mediante una particolare forma di scrittura circolare, Louise inizia ad avere strane visioni che l’aiuteranno non solo a comprendere le reali motivazioni dell’invasione, ma anche a prendere coscienza del dono che gli alieni stanno concedendo all’umanità.

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Tra presente, passato e futuro che si uniscono e si confondono, anche noi apprendiamo come la circolarità del tempo sia letteralmente tra le mani di Louise, in una quadratura degli accadimenti che dona all’intera pellicola una nuova chiave di lettura e sicuramente una notevole originalità all’opera di Villeneuve.

Arrival è un film ben realizzato, dove la fantascienza è un ottimo vestito per una storia molto più intimista e introspettiva, la vera dorsale di questa pellicola che non sconfina mai nel mero action-movie da guerra dei mondi e che, probabilmente, risulta essere la scelta vincente del regista canadese.

A questo si aggiunge un’ottima colonna sonora, capace di creare la giusta suspance ed inquietudine nonché l’abilità di una Amy Adams in splendida forma (con Renner che svolge un lavoro da comprimario).

– Articolo a cura di Martina Andreoni