Home Rubriche Outsider La Bohème di Kaurismäki è una trota bicefala

La Bohème di Kaurismäki è una trota bicefala

Da Scènes de la vie de bohème di Henri Murger romanzo dello scrittore francese Henri Murger, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1851, oltre alla celebre opera di Puccini, si ricordano già altri film: quello di Albert Capellani del 1912 e del 1916, la versione di King Vidor (1926) e quella di Marcel L’Herbier che risale al 1945. Poi un giorno nei primi anni ’90 un buffo e geniale regista finlandese decise di riprendere, rivoltare e rinnovare le vicende di Marcel, uno scrittore parigino, Rodolfo, un pittore albanese e Schaunard, un compositore irlandese.

Tre artisti squattrinati alle prese con un’esistenza misera, fatta di creatività, amore e vino rosso. Tre anime in pena che si aggirano per le vie di Parigi. In un’esistenza così misera, nel tentativo di vendere qualche quadro per pagarsi una serata di sbronze, l’unica salvezza è tenersi stretti.

Aki Kaurismäki ammira e destruttura l’elemento neorealista, virando verso una bislacca forma di realismo magico e l’esistenzialismo dell’anima di quel secondo Antonioni a cui tanto deve il regista finlandese. Il suo cinema è sempre stato così. Tutto può apparire normale e scontato, anche una trota bicefala per battezzare un’amicizia in una trattoria del Marais. Tutto può sembrare magico, ma non lo è.

Nella sua versione di Vita da Boheme c’è molto Bresson (certo l’ambiente parigino aiuta) e l’onnipresente Ozu, maestro al quale Kaurismäki deve praticamente ogni sua opera, da La fiammiferaia a Nuvole in viaggio, da Calamari Union a Miracolo a Le Havre. A tal proposito cascano a fagiolo le parole dello stesso regista “Ozu-san, ho fatto undici schifosi film ed è tutta colpa sua. Ho deciso di farne altri trenta perché mi rifiuto di esser sepolto se prima non ho dimostrato a me stesso che non riuscirò mai a raggiungere il tuo livello”.

Vita da bohème forse non è uno dei suoi film più centrati, ma è proprio questo curioso incontro tra il cinema boutade di Aki e l’infelicità cronica dell’opera di Henri Murger a trasformare la pellicola in una delle sue più famose e rappresentative.

L’uso del b/n conferisce al film uno stile neanche tanto velatamente espressionista. Ma soprattutto, così com’era accaduto due anni prima per la Londra di Ho affittato un killer, il regista camuffa la città. Parigi diventa così un luogo alieno, quasi ostile, con toni cupi ben distanti dalla Ville Lumiére.

Processo che permette al regista di trasformare le città dei suoi film in luoghi estranianti, dove anche un piccolo gesto quotidiano diventa un’implosione emozionale.

Tutto il resto lo fa un cast a dir poco straordinario. Si inizia da Matti Pellonpää, in una delle sue ultime apparizioni prima della prematura morte, attore feticcio di Kaurismaki. Al suo fedele interprete il regista ingrossa e ingrassa la parte di Rodolfo, rispetto allo script originale, rendendolo il personaggio più empatico e umano. Quindi una eccelsa Evelyne Didi nel ruolo smunto di Mimi con la battuta chiave del film: “sai quanto ti amo, ma vivere è difficile”.

Perle sono poi le apparizioni del fedele Jean-Pierre Léaud e il cameo di registi come Samuel Fuller e Louis Malle.