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Into the Wild – Fuga nelle terre selvagge

“Se vuoi qualcosa nella vita, allunga la mano e prendila…”

E’ il 1991 George H. W. Bush autorizzato dal Congresso ad attaccare l’Iraq, da inizio a quella che passerà alla storia come la Guerra del Golfo. Dopo 14 stagioni, la CBS mette in onda l’ultima puntata della sgargiante serie tv Dallas. Il grunge è esploso e sta già per finire.

C’è anche un’altra America però, mai stata così bella. Paesaggi mozzafiato, terre selvagge appunto, l’idea stessa dell’evasione e della libertà. Citazioni colte e poetiche. Le note e le parole di Eddie Vedder.

Improvvisamente, quasi dal nulla, l’attore/regista Sean Penn, tira fuori una di quelle opere che fanno battere il cuore, riportandoci in una dimensione sana, un mondo in cui la priorità non è avere, ma vivere. Che fa riflettere sulle vere priorità dell’esistenza, Questo giovane film, diventato cult in pochi anni, è un cinema on the road, ma soprattutto è un film di formazione ispirato dalle strade di Kerouac, tanto quanto quelle di Salinger.

Christopher McCandless che durante il viaggio adotta lo pseudonimo di Alexander Supertramp, abbandona i cliché della sua adolescenza in una famiglia borghese, abbracciando gli alti valori della ribellione e della libertà. Da cosa e da chi, diventano un pretesto per l’autore/autori per mettere su, un piccolo ed emozionale pamphlet socio-politico.

Into the Wild è tratto dal bestseller di Jon Krakauer, “Nelle Terre Estreme”, che a sua volta racconta la storia vera di Christopher, giovane inquieto e idiosincratico al connubio consumismo e alla gabbia dorata che la sua famiglia ha pianificato per lui.

‘La mia unica esperienza di contatto solitario con la natura risale alla mia gioventù, quando vivevo sulla riva dell’oceano e facevo il surfer’, ha detto Sean Penn, in qualche maniera il suo Alexander Supertramp è un surfista, un viaggiatore, un sognatore, un romantico eremita alla ricerca di qualcosa che neanche lui sa. Ed ecco che Into the wild diventa di per se metafora della formazione di un uomo, fino al finale tragico, figlio diretto o indiretto della sua stessa inesperienza.

A volte si ha l’impressione che il vero obiettivo di questa giovane vita, quanto del film, sia l’attimo, nella sua più compiuta beltà. Ma il film non è una puerile ricerca della bellezza.

“Un viaggiatore esteta che ha per casa la strada” dice Chris.

Il merito di Sean Penn è non approfittare della facile occasione offertagli dalle parole di Jon Krakauer e del suo protagonista, per confezionare una stilosa e hollywoodiana cartolina dalle selvagge terre dell’Alaska. Anzi il film riesce ad essere coraggiosamente crudo e sincero. Sin dall’inizio parla allo spettatore dandogli del tu, conquistandolo e trascinandolo in un baratro che non è la perdizione, ma il senso più assoluto della parola vivere. Allora si che hanno un senso, le meravigliose parole di Eddie Vedder:

When you want more than you have, you think you need.
When you think more than you want, your thoughts begin to bleed.
I think i need to find a bigger place.
When you have more than you think, you need more space.

Una colonna sonora tra le più folgoranti degli ultimi anni, che va perfettamente a braccetto col film, perché scritta per il film stesso.

Proprio quel Vedder che oggi urla di non chiudere i porti e che forse le frontiere non sa neanche cosa siano. Proprio quel Vedder che con i Pearl Jam esordiva nei mesi in cui Christopher Supertramp McCandless, iniziava il suo viaggio.

Ma il viaggio non è inteso da McCandless come lo spostamento dal punto A al punto B, bensì uno stato mentale, perenne ed immutabile.

Solo e sul punto di morte, Chris scriverà “Happiness is only real when shared”, forse finalmente la sua fame di libertà era stata appagata e il suo peregrinare, giunto al termine.