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Il Cliente – Arthur Miller a Teheran

Salesman

A Teheran è di scena Morte di un commesso viaggiatore, celebre opera teatrale del drammaturgo Arthur Miller. Scritta nel 1949 la pièce affronta i temi del conflitto familiare e della responsabilità morale di ogni singolo essere umano. Esattamente quello che si propone Il Cliente, Prix du scénario e Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes 2016.

L’incipit del film è proprio un letto matrimoniale disfatto e poi luci di scena, rumori di teatro. Poco distante, ma sempre tra i vicoli della capitale iraniana, un palazzo viene sgomberato in piena notte poiché pericolante. Tra gli abitanti dell’edificio ci sono anche Emad (Shahab Hosseini)e Raana (Taraneh Alidoosti), proprio la coppia di attori alle prese con la mise en scena dell’opera di Miller. Pochi giorni dopo i due sono costretti a trasferirsi senza preavviso in un appartamento fornito loro dal collega Babak (Babak Karimi). Ma quello che la giovane coppia ignora è che quella loro nuova casa, fino a poco tempo prima, era stata occupata da una prostituta. Una sera Raana, convinta di aprire il portone al compagno, fa entrare un uomo che, colto di sorpresa e speranzoso di avere un rapporto con la precedente coinquilina, colpisce violentemente e (probabilmente) ha un rapporto sessuale con la povera malcapitata attrice. Dopo questo drammatico episodio il rapporto tra Emad e Rana non sarà più lo stesso.

Settimo film del regista Asghar Farhadi, voce indiscussa del cinema iraniano, Il Cliente rappresenta un coerente e solido seguito artistico dopo titoli come About Elly, Una separazione e Il Passato.

Kammerspiel medio orientale (qui più che mai) che ammicca al teatro e al cinema occidentale del secondo dopoguerra, il film indaga, con sobria, ma disarmante lucidità, sulle complesse dinamiche di coppia e sui valori morali dei singoli.

Ancora una volta il cinema farhadiano non fa sconti. La sua filmografia diventa con gli anni sempre più dogmatica, autarchica (nonostante i riferimenti di cui sopra) e interdipendente tra i suoi stessi film. Quasi come fossero parti o ancor meglio capitoli di un’unica colossale opera. Ad emergere maggiormente rispetto al suo cinema passato c’è il dualismo teatro/realtà. Una doppia corsia in cui l’autore esalta tutte le sue doti di scrittura. Il comportamento passivo-aggressivo di Emad (che a teatro veste i panni di Willy nell’opera di Miller). Quello di Raana orgogliosa ma anche sopraffatta alla vergogna per l’accaduto. Tutto è parte di questo dualismo tra il dietro e il davanti le quinte. Tra l’essere e il voler essere.

Ancora una volta a Farhadi riesce il gioco di sottrazione, tanto narrativa, quanto estetico/scenografica(gli open space del nuovo appartamento della coppia) e recitativo. Un talento che ha manifestato anche negli altri suoi film. Raccontare il minimo indispensabile aprendo però profonde sacche esegetiche, interpretative. Più l’autore sottrae, più ottiene. Il suo cinema così visivamente rarefatto, è sempre più profondo e significativo.

Una pellicola di cui si avverte l’urgenza narrativa (speriamo sia sempre così) nella maniera in cui riesce ad urtare, commuovere, indignare e sollevare lo spettatore dall’apatia del cinema d’intrattenimento.

Ma soprattutto Asghar Farhadi ancora una volta riesce a ricondurci alla dimensione più intima dei suoi personaggi, complesse silhouette psicologiche come d’altronde sono gli esseri umani.