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The House That Jack Built – La Recensione

“No, io voglio solo parlare dell’arte. Albert Speer mi piaceva. Era forse uno dei migliori figli di Dio… Ha avuto del talento che poteva essere utilizzato… Ok, sono nazista”

Forse questa tra le tante frasi antisemite partorite dall’ironica-mente di Lars Von Trier meglio introduce lo spettatore a The House That Jack Built, ultimo distorto “pezzo” della filmografia del maestro danese. La frase risale al 18 maggio 2011, durante la presentazione al Festival di Cannes del suo film Melancholia. Il celebre suicidio artistico di Von Trier (qui il video). Una sorta di follia/provocazione che creò prima le risatine della stampa, poi i tremori d’imbarazzo delle sue muse Gainsbourg e Dunst, quindi un’infinita serie di polemiche e accuse di razzismo e antisemitismo che travolsero il regista.

The House That Jack Built è la storia di un serial killer (un Matt Dillon dissociato e inquietante). Una farsa violenta e insopportabile, macabra e misogina, divisa in cinque capitoli (in realtà incidenti, che poi vuol dire omicidi). Fin qui tutto ok, ma quello di Von Trier non è un semplice crime-thriller e non può essere trattato come tale.

Per prima cosa dobbiamo partire dal titolo. The House That Jack Built è infatti una filastrocca britannica che trova le sue origini nel tardo ‘500. Parliamo di un racconto cumulativo, qualcosa di molto simile “Alla fiera dell’Est” di Branduardi. In effetti entrambe hanno una matrice comune nel canto pasquale ebraico dal titolo Chad Gadyà. Cioè oltre a parlare di Jack e della casa che sta costruendo, si hanno informazioni cumulative su tutto ciò che sta intorno e fa parte della storia.

Ed è un po’ quello che accade in questa vicenda. Il dialogo con un certo Verge è l’ossatura narrativa della pellicola. Verge è interpretato dal compianto Bruno Ganz e quale sia il suo ruolo nella storia, lo scopriremo alla fine del film. Per tutta la pellicola il loro dialogo sembra fraterno, empatico. A tratti, chiudendo gli occhi si pensa ad un confessionale e al rapporto tra prete e penitente.

(SPOILER ALERT)

Nel frattempo Jack inizia ad uccidere. Senza pietà, né vergogna. Inizia con un colpo di cric in faccia a Uma Thurman ed è curioso perché il cric in inglese si traduce con la parola Jack.

Ossessionato semmai, infastidito dalle imperfezioni del gesto, quasi l’atto violento per eccellenza fosse una pura espressione artistica. Von Trier parla di obsessive-compulsive disorder o OCD, non solo quella di Jack ma anche quella personale del regista e dell’uomo. Lui (Von Trier), ipocondriaco, aerofobico, misantropo, che da anni si sposta in auto per non volare, che ha paura dell’acqua, che è convinto di avere ogni forma conosciuta di tumore maligno. In mezzo didascalie godardiane e citazionismi esasperanti. Filo conduttore ad esempio è quello di Jack che si libera di fogli come Bob Dylan in Subterranean Homesick Blues, ma in realtà tratta da Dont Look Back di D. A. Pennebaker.

Ma anche le ossessioni di Glenn Gould o i quadri di Paul Gauguin. L’arte pittorica è poi al centro della storia con rimandi continui (cosa non nuova nel cinema del regista). Come quando Verge/Bruno Ganz porta Jack in un “non luogo”, e cita il Viandante sul mare di nebbia (Der Wanderer über dem Nebelmeer) del pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich. La contemplazione dell’infinito.

Ma non anticipiamo, ci sono ancora gli omicidi di Jack, molte donne, ma anche due bambini. Su questa scena poi Von Trier si perde parte della critica a Cannes che esce disgustata dalla sala.

Poi ancora ossessioni come quella di voler costruire una casa. “L’ingegnere legge la musica, l’architetto la suona”. La casa la costruirà con i corpi delle sue vittime, design firmato dallo stesso Von Trier. Macabro è dir poco.

Poi ancora citazioni. Verge continua a dire “Well, show me the way To the next whisky bar”, passaggio tratto da Alabama Song, pezzo scritto da Bertolt Brecht e Kurt Weill, poi suonato da Jim Morrison e da David Bowie.

A proposito c’è un apostrofo musicale in tutto il film, una sorta di ossessione sonora che si chiama Fame celebre pezzo scritto proprio da Bowie, Carlos Alomar e da John Lennon. Canzone che lo stesso Bowie ebbe a definire come “maligna e arrabbiata”, una riflessione sulla natura della celebrità. Von Trier la fa sua e la propone in diversi momenti del film. Ancora ossessioni e ancora citazioni. La poesia di William Blake “The Tyger” (La tigre) ad esempio, raccolta nell’opera Songs of Experience, pubblicata nel 1794. Il regista danese la usa per confrontare la sicumera dell’esperienza di adulto e la malvagità della tigre con l’innocenza dell’agnello, sconcertato dall’idea che il principio del male e del bene abbiano la stessa origine.

Alla faccia poi delle polemica di Cannes 2011, Von Trier ritorna su Albert Speer (per chi non lo sapesse era l’architetto personale di Adolf Hitler, detto anche l’architetto del diavolo) e “La teoria del valore delle rovine”. Il decadimento degli edifici, delle opere d’arte, dei corpi, e dell’uva (necessaria per creare un buon vino).

Gli omicidi iniziano a diventare troppi e Jack ormai ha la polizia alle calcagna. A questo punto per la prima volta vediamo Verge, che ci/lo accompagna in macabri luoghi escheriani, l’inferno dantesco dove comprendiamo, attraverso l’omaggio ad un celebre quadro di Eugene Delacroix, che Jack è Dante e Verge è il maestro Virgilio.

Dopo un lungo peregrinare Verge/Virgilio mostra a Jack i Campi Elisi da una stanza, ma loro non sono amati dagli dei e aggiunge “li non possiamo andare”. La loro destinazione è un’altra. La lingua infuocata dell’inferno. Nel tentativo di raggirarla Jack ci finirà dentro e Von Trier chiuderà questa sua lisergica opera con uno sberleffo. Hit the Road Jack singolo soul di Ray Charles, scritto da Percy Mayfield che parla appunto di un tale Jack incapace di rimettersi in piedi. La versione è quella di Buster Poindexter che poi è lo pseudonimo di David Johansen leader dei New York Dolls, già usata nella commedia del 1989 Dream Team che racconta di quattro psicotici in libertà per le strade di NY.

Chissà se Von Trier lo sapeva, chissà se Von Trier è realmente un fottuto nazista di merda, chissà se uccidere è un po’ come creare. Ma tutto ciò è realmente importante? E’ importante Jack, o la sua casa di corpi. Forse questa di Von Trier è solo una riflessione sul concetto astratto di ARTE. Sulla natura dell’uomo, sulla sua miseria e sulla sua malignità. Certo se lo scopo del cinema è colpire per lasciare un segno, allora The House That Jack Built è un capolavoro. Altrimenti Von Trier si sta solo burlando di noi, per non dire altro.