Home Rubriche Horror Homo homini lupus e la realtà inconscia: Cure di Kiyoshi Kurosawa

Homo homini lupus e la realtà inconscia: Cure di Kiyoshi Kurosawa

Tra la seconda metà degli anni ’60 e i ’70, Roman Polanski realizzò un trittico di film horror in cui l’orrore non proviene da entità sovrannaturali o da mostri ma dalla realtà, il quotidiano che si fa terrore: ovviamente, ci stiamo riferendo a Repulsione (1965), Rosemary’s baby (1968) e L’inquilino del terzo piano (1976). Sulla scia di questa meravigliosa trilogia adopera anche uno dei più importanti registi horror giapponesi, anche se non ancora famoso come meriterebbe, qui in occidente, Kiyoshi Kurosawa, che, nel 1997, realizza uno dei mistery movies più potenti ed inquietanti prodotti negli ultimi venti o trent’anni: Cure.

Una serie di omicidi messi in atto da gente comune senza apparente motivo, persone che uccidono parenti o conoscenti senza sapere il perché. Persone sconosciute tra loro ma che adoperano nello stesso modo, incidendo una profonda X sul collo delle vittime. E il detective Takabe, uomo che si affida totalmente alla ragione e agli indizi, comincia  a vacillare, quando non c’è nemmeno l’ombra di un nesso logico tra gli omicidi né di un indizio. In questa spirale di follia e angoscia, cadrà anche lui. E poi c’è quell’uomo. Chi è? Perché non ricorda nulla, nemmeno cose dettagli pochi secondi prima (molto simile al Leonard Shelby di Memento di Cristopher Nolan)? Perché chi parla con lui compie queste aberranti azioni?

Il detective e il collega di fronte alla prima vittima.

Chi sei?” è la domanda che il misterioso uomo ripete costantemente ai suoi interlocutori, i quali rispondono sempre in modo superficiale, identificandosi con il proprio nome e il proprio mestiere. Basta questo, per “essere”? Un nome, un cognome e un lavoro? Forse è proprio nella risoluzione a questo problema che si cela il significato del film, almeno secondo chi scrive.  L’ipnosi come pretesto per rivelare l’inconscia essenza dell’uomo: gente comune che si cela dietro una maschera di normalità è, per propria natura, violenta, crudele. Quando si è sotto ipnosi non si fa nulla che non si farebbe da lucidi. Tuttavia, il poliziotto uccide il collega, l’insegnante di scuola elementare la moglie e via dicendo. Perché? Perché loro si autodefiniscono buoni, si pongono come paladini della normalità ma la verità è che, come tutti gli esseri umani, sono degli animali e la violenza, la ferocia, l’istinto omicida sono nella loro natura. Pardon, nella nostra natura. L’uomo misterioso (e le sue straordinarie doti ipnotiche, derivate dalla sua profonda conoscenza del mesmerismo) è solo un tramite, la chiave che spalanca le porte dell’Inferno, lasciando fluire liberamente l’inconscio dei suoi interlocutori: non è lui che ordina loro di uccidere ma sono loro che, dismessa la maschera che indossano, uccidono, senza quasi rendersene conto. Perché, in fondo, Plauto aveva ragione, quando, nell’Asinaria, diceva che “lupus est homo homini”: l’uomo è un lupo per l’uomo. Sono l’istinto di sopravvivenza e (forse soprattutto) quello di sopraffazione a dettare l’operato del genere umano.

Dichiaratamente ispirato ad alcuni dei thriller psicologici americani più importanti degli anni ’90, Il silenzio degli innocenti e Seven in primis, Cure riprende alcuni elementi propri di questi film realizzando, però, un film innovativo che diventerà sin da subito una pietra miliare, fondamenta della new wave del cinema horror giapponese. Numerosi piani sequenza, frequenti campi lunghi e la pressoché totale assenza di una colonna sonora extradiegetica rendono questo film molto più macabro delle pellicole occidentali sopra citate. Kurosawa vuole che il suo film sia veramente una finestra sul mondo, privandolo di molti elementi propri della finzione cinematografica. È la realtà a produrre la musica che accompagna l’azione (il mare, il rubinetto che perde, il vento,…), il montaggio, nella maggior parte dei casi, viene usato soprattutto per unire tra loro le scene, il cui decoupage viene ridotto allo stretto indispensabile, perché nella vita vera vediamo il mondo in piano sequenza. È proprio questo che rende Cure un film che gli spettatori più fragili potrebbero faticare a vedere, il suo costante richiamo alla realtà, la cattiveria messa in scena, la violenza e la natura umana che vediamo nel film non sembrano appartenere all’universo cinematografico ma alla nostra realtà. Kiyoshi Kurosawa ha realizzato, in quel 1997, quello che potremmo definire come “documentario di finzione” sull’uomo e la sua innata crudeltà.

Ah, dimenticavo: il finale di questo film è uno dei più angoscianti e meravigliosi che potreste mai vedere.