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High Fidelity 25 anni dopo è ancora attuale

High Fidelity

La prima volta che lessi High Fidelity (Alta Fedeltà) è stato 10 anni fa circa, avevo 19/20 anni e la prima cosa che mi colpì del libro, oltre ai riferimenti culturali e musicali di cui è zeppo, fu la contemporaneità della storia raccontata. Si perché anche se il romanzo parlava ai 30enni di metà anni 90, la coda lunga della Generazione X, quella era una storia universale, declinabile in ogni epoca. La prima volta che lessi Alta Fedeltà provai subito empatia con il suo protagonista, Rob Flaming, empatia e odio. Empatia per tanti motivi e perché come lui ho una passione abbastanza totalizzante. Odio perché, diciamocelo, Rob alla fin fine è un coglione dai, anche un po’ stronzo.

Subito dopo ho scoperto il film di Stephen Frears con John Cusack, perfetta versione del Rob in celluloide, vero e proprio cult della commedia, una pellicola invecchiata benissimo con il tempo. Sono passati 25 anni dall’uscita di quel libro e 20 dal film. Praticamente una vita fa.

La serie realizzata da Hulu lo scorso anno, con protagonista Zoe Kravitz è forse la versione più improbabile di High Fidelity mai realizzata. Il fatto che sia perfettamente sensata, e che riesca a parlare in maniera così diretta e coerente al pubblico di oggi, è un omaggio si, alla protagonista indiscussa della serie, ma anche all’universalità appunto della storia raccontata. “Perché le playlist e le classifiche saranno ora digitali, ma i cuori spezzati rimarranno sempre dolorosamente analogiche” (Nick Hornby docet).

High Fidelity

Il Rob Fleming del romanzo abita a Londra e gestisce un fatiscente negozio di dischi: il Championship Vinynl. Con lui a dargli una mano, i suoi due dipendenti e migliori amici, forse le uniche persone più disagiate, “sociopatiche” e malate di musica di lui. Il Rob Gordon del film è a Chicago, stesso negozio di dischi, stessi amici e stesse dinamiche: quelle di un gruppo di amici che si fanno forti di una passione comune per schermarsi contro il mondo là fuori.

Il Rob Fleming/Gordon è un adulto che tarda a diventarlo, restio a prendersi le proprie responsabilità, un uomo insicuro, immaturo, pieno di fisse inutili, con problemi nel gestire il suo rapporto con altri esseri umani e con una passione per la musica totalizzante.

Vuoi un po’ per la “retromania” incessante che si è sviluppata negli ultimi anni, vuoi un po’ per lo status di culto del romanzo, questo ha fatto sì che il protagonista della storia sia diventato una sorta di archetipo.

Il suo bisogno di incanalare tutto in classifiche/top 5, abitudine che abbiamo preso su qualunque cosa, l’idea che tutto possa essere mosso ed orientato dalle affinità elettive in base alla musica ascoltata, ai libri letti, ai film amati (si lo so, la cosa è un tantino più complicata di così ma cazzo se è importante). Il fatto che sia sempre lui la vittima delle situazioni, quando invece in realtà, il più delle volte, si tratta di puro egocentrismo e narcisismo dell’essere umano.

High Fidelity

La Rob di High Fidelity (stavolta Robyn Brooks), in un perfetto ed attuale ribaltamento di genere, gestisce lo stesso negozio di dischi, però stavolta traslato a Brooklyn (che fa più figo ed hipster) e racchiude in sé tutti gli elementi sopra citati. Rob è una ragazza insicura ed indecisa, in continua autoanalisi rispetto alle decisioni prese. Quello che viene descritto è un disagio generazionale puntuale, figlio delle incertezze del nostro tempo.

Il Rob Fleming/Gordon/Brooks è il perfetto e bellissimo esempio di fallibilità umana. Una persona che vuole essere amata (ma che non può essere amata solo alle sue condizioni), che ha bisogno di un mondo in cui le persone capiscano i suoi riferimenti culturali e che ha nella musica un baricentro fondamentale della propria vita, che è molto di più della semplice colonna sonora di momenti che è diventata adesso. Abbiamo bisogno di musica: perché la musica è bellezza, e con la bellezza arricchiamo noi stessi e il nostro spirito.


“Che cosa è nata prima la musica o la sofferenza?” – High Fidelity


Perché se vogliamo fare un discorso su High Fidelity non possiamo esimerci dal fatto che alla base del libro, del film e della serie, oltre alle relazioni, all’essere umano che si rapporta con i suoi fallimenti, c’è la musica e oggi la musica, non interessa poi molto.

I negozi di dischi sono sempre meno e quelli che resistono sono alla stregua di riserve naturali in mezzo a colate di cemento. Questo perché i dischi non li compra fondamentalmente più nessuno e quando ci dicono che il mercato del disco è in crescita è perché prima era zero e quindi qualunque disco venduto è più di zero.

High Fidelity

Prendere un disco è come un’affermazione culturale e identitaria, è come se dicessi: “io sono sta cosa qua”. I nostri gusti riflettono un’immagine di noi stessi, un’immagine intima e più lusinghiera di un selfie da postare sui social.

Le volte in cui ho avuto modo di rileggere pezzi del libro di High Fidelity, quello che mi ha colpito è stata la malinconia di fondo di cui è pervaso. E questa malinconia è perfettamente rappresentata dalla serie e dall’animo blues della Rob di Zoe Kravitz. La musica è per lei uno scudo verso il mondo ma che da sola non può bastare a proteggerla, rappresenta quindi anche la voglia e l’impegno di progredire ed andare avanti seppur in modo caotico e confuso.

Ecco, High Fidelity racconta proprio questo: racconta chi siamo, chi eravamo, chi avremmo potuto essere se solo fossimo stati più onesti con noi stessi. Racconta la nostra normalità, la nostra confusione, il nostro modo di progredire ed andare avanti. Il nostro bisogno di sentirsi parte di qualcosa o di essere semplicemente capiti per come siamo. Just like everybody else does.

*Potete vedere High Fidelity su Star di Disney+ o se siete fighi su Hulu

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Chief editor e Co-fondatore

Cresciuto a massicce dosi di cinema, fin da giovane età veniva costretto dal padre a maratone e maratone di Spaghetti-Western. Leggenda narra che la prima frase di senso compiuto che uscì dalla sua bocca fu: “Ehi, Biondo, lo sai di chi sei figlio tu? Sei figlio di una grandissima……” Con il passare del tempo si è evoluto a quello che è oggi: un cinefilo onnivoro appassionato di cinema in ogni sua forma che sia d’intrattenimento, d’autore o l’indie più estremo. Conteso da “Empire”, “The Hollywood Reporter”, “Rolling Stone”, ha scelto Jamovie perché, semplicemente, il migliore tra tutti.