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Gaspar Noè – La crudeltà dell’esistenza

Voglio iniziare questo approfondimento con una confessione: i registi che sanno far parlare di sé sia fuori dai set che dietro la macchina da presa, li adoro. Adoro quell’alone che si crea attorno a registi come Lars Von Trier e il genio di cui parliamo oggi, Gaspar Noè. Non uno dei registi più prolifici della nostra era (dal 1998 a oggi ha realizzato solo quattro lungometraggi) ma uno dei più estremi, sotto l’aspetto puramente tecnico.

La sua regia è molto particolare e varia: in alcuni film è molto statica, in altri è ipercinetica, anche nei momenti più pacati, il suo montaggio talvolta si nasconde nella sinuosità della macchina da presa, le sue sceneggiature sono sempre dei pugni nello stomaco dello spettatore: non si tratta mai di film d’intrattenimento ma di riflessioni nichiliste sul nulla che pervade questo mondo e l’esistenza umana. I suoi personaggi sembrano sempre sperduti, come dei pellegrini senza meta, alla ricerca di qualcosa di irraggiungibile o che, una volta raggiunto, non lascia alcuna soddisfazione o piacere permanente. Tutto è morte, tutto è dolore, tutto è perdizione: questo potrebbe essere il motto per il regista franco-argentino.

Il peso dell’esistenza grava sulle spalle di Murphy.

1998 – Seul contre tous: sempre soli

La storia di Gaspar Noè nel mondo dei lungometraggi ha inizio nel 1998. “Seul contre tous”, letteralmente “solo contro tutto”, è un’opera prima estremamente coraggiosa e difficile da digerire, il seguito del suo più celebre cortometraggio, “Carne”. E’ il racconto di un uomo in età matura, un macellaio senza nome, appena uscito di prigione ricolmo di odio per il mondo e per il genere umano. Vaga per le strade di una Parigi decadente accompagnato dalla figlia Cynthia, sulla quale ha diverse fantasie poco pure, per usare un pallido e garbato eufemismo, nel tentativo di ricostruirsi una vita ripartendo da zero.

Philippe Nahon, l’attore protagonista, riesce a trasmettere, attraverso il suo sguardo furibondo, tutto lo schifo che il macellaio prova per una società che abbandona l’individuo, per una vita che scorre all’insegna della solitudine: “Nasciamo soli, viviamo soli, moriamo soli. Soli. Sempre soli. Ed anche quando scopiamo siamo soli. Soli con la nostra vita, la nostra carne. E’ come un tunnel impossibile da condividere. E quanto più invecchiamo più siamo soli, di fronte al ricordo di una notte che si distrugge lentamente.”, dice il protagonista, durante il suo lungo monologo che accompagna la pellicola, un po’ come accadeva oltre vent’anni prima in Taxi Driver. Due film che sono molto simili, nella loro Weltanschauung.

La regia è spesso statica, a differenza di quello che accadrà nei due film successivi, sia per motivi pratico-economici che per motivi espressivi. Le immagini scorrono in una stasi opprimente così come l’esistenza umana rappresentata sulla celluloide di questo film. Poche carrellate e ancor meno movimenti fantasiosi rendono il film un macigno nichilista e pessimista che pesa sulle spalle dello spettatore, caduto in quella trappola crudele che è la filmografia di Gaspar Noè.

Il protagonista di Seul Contre Tous

2002 – Irreversible: il tempo distrugge tutto

Due personaggi, uno nudo e uno vestito. Con la trama del film non hanno nulla a che fare. Chi sono? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che sono spregevoli: quello nudo dice di essere stato in prigione per aver molestato la figlia, l’altro lo consola dicendogli di non smettere mai di provare piacere. La macchina da presa, dopo la staticità del film precedente, esordisce in Irreversible con movimenti sinuosi e bizzarri che disorientano e stordiscono.

Il film inizia dalla fine. Quello che vediamo è un uomo disperato e furibondo, Marcus (Vincent Cassel), che si trova in un locale gay alla ricerca di chi ha violentato e massacrato la sua fidanzata , Alex (Monica Bellucci, sulla cui interpretazione è meglio stendere un velo pietoso). Lo trova e viene picchiato e sodomizzato da lui, finché interviene l’amico di Marcus, Pierre, che distrugge il volto del molestatore con un estintore. E’ una scena cruda, il trucco e gli effetti speciali sono talmente buoni da far dubitare della “falsità” dell’azione: il volto sembra veramente distruggersi sotto i colpi di Pierre.

La violenza in questo film è ridotta ai minimi termini. Ma ciò non la rende meno disturbante: oltre alla scena citata prima, celeberrima ed estremamente angosciante è quella dello stupro di Alex. Un lungo piano-sequenza che mostra, quasi come se fosse un documentario, tutta l’azione. 8 minuti di stupro e conseguente pestaggio che macchieranno la vostra anima e durante e dopo i quali vi sentirete sporchi, sporchissimi. La macchina da presa segue la Bellucci mentre cammina in un sottopassaggio, fino all’incontro con il molestatore. A questo punto la camera smette di fluttuare e si adagia a terra, immobile e glaciale, un’inquadratura che fa subito pensare ad uno dei grandi maestri del cinema giapponese, Yasujiro Ozu. Lo sguardo di Noè è profondamente legato alla materia della realtà, non vuole edulcorare la vita: se l’esistenza è crudele, crudele deve essere il film.

Il montaggio (arte considerata la più elevata nella produzione di un film, secondo Noè) non consiste più, come accade solitamente e come accadeva anche nel suo film precedente, nell’accostamento di spezzoni di pellicola ma nel loro amalgamarsi e fluire l’uno nell’altro: tutti i piani sequenza che compongono il film diventano un tutt’uno omogeneo, come si era visto, nel passato, in “Nodo alla gola” di Alfred Hitchcock o, in futuro, in “Birdman” di Inarritu.

Il piacere è un tema ricorrente nelle pellicole del regista franco-argentino e non viene mai dipinto semplicemente come un insieme di sensazioni gradevoli  ma ha sempre un risvolto drammatico, tragico e orrorifico. Il piacere, per essere tale, deve avere una controparte fatta di miseria, disperazione e dolore. E badate bene, non si parla solo di piacere sessuale. Spesso, infatti, i personaggi di Noè fanno uso di sostanze stupefacenti (il regista stesso ne assume in quantità non irrilevanti), come se fossero una via di fuga dall’esistenza, alla ricerca di un angolo di paradiso che, però, una volta svanito l’effetto della droga, sparisce insieme ad esso.

Una delle sequenze più disturbanti di sempre in Irreversible.

2010 – Enter the Void: Cadere nel vuoto

Un film monumentale, un trip psichedelico che riesce a trasmettere quello che sentono e vedono i protagonisti quando assumono DMT o altre sostanze psicotrope. Enter the Void non è assolutamente un film leggero né, tantomeno, un film facile da vedere. Ma tutti i 150 minuti della sua durata sono una pura opera d’arte, un viaggio indimenticabile che incide l’anima dello spettatore con ferite che non potranno mai guarire. Una volta visto questo film, non vi abbandonerà mai più perché è uno di quei pochi film che sopravvivono nella mente dello spettatore per molto tempo dopo la visione.

Il piano-sequenza, marchio di fabbrica della regia noeiana, raggiunge in questo film il proprio estremo: tutta l’opera sembra realizzata con una sola inquadratura, con la macchina che sembra volare libera da qualsiasi costrizione, raffinando quello stesso stile già adottato in Irreversible. Nonostante ciò, però, il film risulta estremamente vario: si passa, infatti, da una prima parte girata quasi tutta in soggettiva, dal punto di vista del protagonista, ad una seconda in cui la macchina da presa fluttua e si sbizzarrisce in sequenze da capogiro, impersonando l’anima del protagonista liberata dal peso dell’esistenza. Un film molto eterogeneo pur presentando un’unità stilistica che lo rende il film simbolo del cinema di Noè. Insieme ai movimenti di macchina folli, anche la fotografia stroboscopica (che rende assolutamente sconsigliabile la visione di questo film a chi soffre di epilessia) e le frequenze bassissime della colonna sonora proiettano la mente dello spettatore in un viaggio psichedelico che non può lasciare indifferente: ci si sente drogati senza assumere alcun tipo di droga.

La morte e la reincarnazione sono i temi portanti di questo film colossale: dall’uso ricorrente dei protagonisti di DMT (uno dei protagonisti dice che “è la stessa sostanza che rilascia il tuo cervello quando muori: è un po’ come se morire fosse il tuo ultimo viaggio, mi spiego?”) alle lunghe citazioni e discussioni circa il celebre Libro Tibetano dei Morti, tutto in questo film affonda le proprie radici in una cupa visione della vita in attesa della morte e di una (forse neanche troppo) auspicabile reincarnazione.

Il protagonista, Oscar, non viene quasi mai mostrato in viso, se non in rarissime situazioni, come quando si specchia. La camera è sempre o dietro la sua testa oppure è in soggettiva, in un tentativo di universalizzare il disagio esistenziale che caratterizza non solo questo personaggio ma chiunque graviti nell’orbita dei film di Noè. Dopo la sua morte (no, non è uno spoiler, poiché avviene nella prima decina di minuti del film, circa), la camera diventa lo spirito di Oscar che segue le vicende dei suoi amici e di sua sorella, osservando le loro vite e le loro disgrazie con fare quasi voyeuristico e con inquadrature che sono per la maggior parte del tempo in plongée (ovvero dall’alto, con la camera che guarda dritta verso il basso). Noi diventiamo Oscar e veniamo posti di fronte alla crudeltà dell’esistenza che normalmente evitiamo di affrontare. Noè è spietato: il suo cinema è lo specchio della nostra vita. La miseria dei suoi protagonisti è la miseria dello spettatore. E anche le loro perversioni e idee malsane sono quelle di chi guarda: un esempio è quando l’anima di Oscar entra nel corpo di un uomo che sta facendo sesso con la sua bellissima sorella, mostrandoci quindi l’amplesso in soggettiva. Oscar diventa colui che la sta possedendo in un rapporto astrattamente incestuoso. E, di conseguenza, noi stessi diventiamo i soggetti di una libido incestuosa che la maggior parte degli spettatori rinnegano. Mentendo.

Un film molto colorato ma assai cupo: Enter the Void.

2015 – Love: Sessualità sentimentale

Sicuramente non il film più importante di Noè, Love è comunque una film che qualcosa lascia. Il più sessualmente esplicito, tanto da rasentare la pornografia, senza però scadere nella becera volgarità che contraddistingue quest’ultima. La pellicola ci mostra Murphy, un aspirante regista americano a Parigi, padre di un bambino e fidanzato freddo e distante della giovane Omi, conosciuta quando stava insieme alla sua ex ragazza, Electra. Una mattina, un messaggio sulla segreteria telefonica, lasciato dalla madre di Electra che lo avvisa del fatto che la figlia non si fa sentire da molto tempo, fa scaturire in Murphy un’onda di ricordi della sua storia con la ragazza. Una storia fatta di sesso e sogni di gloria artistica, di trasgressione e droga, una storia che si è conclusa quando Murphy mette in cinta Omi, la loro vicina di casa con la quale hanno avuto un rapporto a tre un giorno.

Love è un film tecnicamente ineccepibile, ogni singolo aspetto del film è a dir poco ottimo. Come al solito, l’unico grosso difetto dei suoi film è la sceneggiatura: Noè non è mai stato un gran dialoghista e, a mio avviso, per Love ha scritto le battute meno incisive della sua carriera. Finito di vederlo, non resta impressa nemmeno una linea di dialogo; restano in testa immagini bellissime, corpi ripresi come se fossero statue greche, ma di battute… niente, zero. Nonostante ciò, però, Love resta. Resta nella mente, difficilmente ci si dimenticherà di questo film, se si sa apprezzare un minimo l’aspetto tecnico di un’opera filmica.

La regia, diversamente dalle due pellicole precedenti, torna ad essere piuttosto statica, come si era visto in Seul Contre Tous, con l’unica differenza che la fotografia di Benoit Debie (che ha già collaborato con Noè in Irreversible e Enter the Void) sa regalare immagini estremamente potenti, grazie ad un sapientissimo utilizzo dei colori. La camera raramente si muove e, quando lo fa, si limita a qualche carrellata lenta che sembra dilatare il tempo. L’elemento più potente di questo film, però, è il montaggio. Le inquadrature non si susseguono elegantemente e fluentemente, ma vengono sempre intervallate da qualche fotogramma nero. Alla fine di Irreversible si leggono le parole “Le temps detruit tout”, il tempo distrugge tutto. In questo film, invece, è il tempo ad essere distrutto, il suo fluire diviene singhiozzante sotto i colpi impietosi della memoria e del rimorso. Dunque, tempo dilatato ma distrutto. Il presente viene ridotto a qualche breve comparsata per lasciare spazio al passato, culla del piacere, mentre l’hic et nunc diventa un crogiuolo di doveri opprimenti (quello della paternità, per esempio) e di rimorsi. Una visione del tempo molto leopardiana, la cui melanconia sembra pervadere ogni singolo secondo del film.

La sessualità sentimentale in un fotogramma: Love.

Conclusione: lasciate ogni speranza, o voi ch’intrate.

Il cinema di Gaspar Noè non è affatto un cinema semplice. È un grosso macigno fatto di trasgressione e negatività, pessimismo esistenziale che trascina lo spettatore in un turbine nero e cupo, accecante e stordente. Iniziare a vedere i suoi film è come attraversare le porte dell’Inferno: noi siamo gli esploratori degli Inferi, novelli Dante senza la guida di Virgilio. Lasciate ogni speranza, o voi ch’intrate.