Home Rubriche Oriente Father and Son – di Hirokazu Koreeda (2013)

Father and Son – di Hirokazu Koreeda (2013)

Un film che tocca il cuore. Non lo scombussola, non è un cazzotto nello stomaco, non lo fa in maniera forte, ma delicata, quasi sussurrata, ma lo tocca, e ce ne accorgiamo.
E’ quello che fa “Father & Son”, film giapponese del regista Hirokazu Koreeda, che dopo una lunga carriera tra lungometraggi, serie tv e corti è riuscito a far portare un suo film nelle sale italiane. E che film.
Premiato anche a Cannes con il Premio della Giuria, la pellicola che originariamente si intitola “Soshite Chichi ni Naru”, parla di due famiglie, in particolare comincia focalizzandosi sulla famiglia Nonomiya, composta da Ryota, uomo pienamente realizzato nel lavoro, sempre alla ricerca del successo, che vive in un lussuoso appartamento con la moglie Midori e il piccolo Keita, di sei anni.
Un giorno Ryota e sua moglie vengono convocati dall’ospedale in cui è nato il piccolo ricevendo una notizia sconvolgente : il giorno in cui Keita è venuto alla luce, c’è stato uno scambio di bambini, ed il loro vero figlio, ha altri due fratellini e vive con i Saiki, una famiglia più povera della loro, ma che però sembra vivere più di cuore che di lavoro e doveri.
Le due famiglie una volta entrate in contatto dovranno capire come risolvere la questione : contano più i veri legami di sangue, oppure i genitori di un figlio sono coloro che lo hanno cresciuto ?!

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Le due famiglie al completo

E’ questo il dilemma che accompagna la pellicola dal primo al suo centoventesimo minuto, con un ‘organizzazione della narrazione tipica del rigore del paese del Sol Levante : prima ci viene presentata la famiglia Ryota, poi si arriva al fatto centrale del film, lo scambio, entra in scena la famiglia Saiki, e poi il tutto viene riportato al primo nucleo familiare, ed in particolare alla figura di Ryota, personaggio che più degli altri, anche per ricordi ed esperienze della sua infanzia, sembra quello che più è insicuro sul da farsi.

A differenza di quanto accade in un film simile a questo, “Il figlio dell’atra”, in cui lo scambio di bambini viene visto più sul lato socio  politico ( li parliamo di un palestinese ed un israeliano) , nella pellicola di Kooreda ad essere messo in risalto è invece la figura della genitorialità : genitore lo si è perchè all’anagrafe siamo noi padre e madre di nostro figlio o perchè siamo noi, quelli che cresciamo i nostri bambini? Qui non c’è dietro nessun contesto politico, quello sociale conta fino ad un certo punto, le due famiglie vivono vite differenti e hanno un potere economico differenti, il che lo si vede nei loro modi di fare, nel vestire, ed il regista ce lo mostra anche con i diversi colori con cui sono rappresentati gli ambienti in cui le due famiglie vivono : più caldi e vivi quelli di casa Saiki, più freddi e opachi quelli di casa Nonomiya.

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Ti voglio bene, papà.

Il regista però senza essere invadente riesce a farci entrare a pieno nell’animo dei personaggi, specialmente i genitori, che vivono ognuno in modo differente la questione, ma che tocca nel profondo tutti, specialmente la famiglia Nonomiya, e specialmente Ryota, incapace di a costruire un vero rapporto col figlio Keita, (difficoltà che ha delle cause nel suo passato), e quindi messo ancor più a dura prova dalla scoperta di un altro suo figlio, quello biologico. Il legame di sangue contro quello affettivo, la tradizione contro il cuore, due mondi che devono trovare il loro punto d’incontro, così come lo stesso Giappone, un paese che nella sua storia è andato sempre di pari passo nel connubio tra tradizioni e novità.
Tutto nella pellicola si fa notare ma non è invadente, come la musica, spesso presente ma molto rilassante, i suoni, comprese le voci dei personaggi che mai arrivano a superare certi decibel, quasi a voler comunque tenere un clima pacato, non sia mai che i bambini, le vere vittime dello scambio possano soffrirne troppo, ed il ritmo del film, che non ha mai elevati picchi di accelerazione ma sceglie un andamento continuo, e non esagerato, senza però annoiare, affatto.

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Le inquadrature spesso si fermano a contemplare il volto dei protagonisti, ma mai troppo vicino a loro, sempre ad una certa distanza, quasi a significare che noi siamo si spettatori, ma dobbiamo lasciare alle due famiglie la loro privacy, per poter affrontare al meglio una delicata situazione. E poi loro, i bambini, che il regista riprende in momenti di gioco, con i loro sguardi innocenti e che commuovono, che cominciano a muovere i primi passi nel mondo dei grandi in un misto di consapevolezza e spensieratezza, di divertimenti e responsabilità (o missioni, come le chiama Ryota). Sempre un binomio, sempre due diversi mondi che devono convivere, così i bambini, come i grandi, e come del resto, ha sempre fatto nella sua lunga storia, il Giappone.
Se siete genitori, amate i vostri figli, o se semplicemente amate il bel cinema, e volete anche voi, farvi toccare il cuore da una pellicola molto ben fatta, guardatevi questo film.

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Capo Redattore e Co-fondatore

Grande amante del cinema, e questo è scontato dirlo se sono qua :­) Appassionato da sempre del genere horror, di nicchia e non, e di film di vario genere con poca distribuzione, che molto spesso al contrario dei grandi blockbuster meriterebbero molto più spazio e considerazione; tutto ciò che proviene dalle multisale, nelle mie recensioni scordatevelo pure. Ma se amate quelle pellicole, italiane e non, che ogni anno riempono i festival di Berlino, Cannes, Venezia, Toronto, e dei festival minori, allora siete capitati nel posto giusto.

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