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Famiglia e fantasmi: Ugetsu monogatari di Kenji Mizoguchi

Per il film di cui parleremo oggi, dobbiamo prendere la macchina del tempo e tornare indietro. Tornare indietro di più di mezzo secolo. È il 1953. L’Occidente si è accorto non molto tempo prima dell’esistenza di una cinematografia asiatica che può benissimo tener testa alla sua, grazie al lavoro di maestri come Akira Kurosawa e Yasujiro Ozu. Il 1953 era l’anno di grandissimi film come I vitelloni di Federico Fellini, Vacanze romane di William Wyler e del debutto di un certo Stanley Kubrick, Paura e desiderio. Ma, soprattutto, il 1953 è l’anno in cui il maestro Kenji Mizoguchi vince il Leone d’oro con il suo capolavoro, il film preso in esame oggi: Ugetsu monogatari (I racconti della luna pallida d’Agosto). Un film fondamentale per lo sviluppo futuro di un certo tipo di cinema, un film di una bellezza e di un’importanza rare. Ma andiamo con ordine.

Nel Giappone della fine del XVI secolo la guerra civile incombe. Due contadini, Tobei, ossessionato dal desiderio di diventare un importante samurai, e Genjuro, con il desiderio di arricchirsi grazie ai vasi che produce, abbandonano, nella speranza di esaudire i propri sogni, le rispettive mogli, Ohama e Miyagi, destinate ad una fine disastrosa. Durante la sua avventura, Genjuro farà la conoscenza di una donna che lo ammalierà, Lady Wakase, di cui si innamorerà. Tuttavia, la realtà che percepiamo non sempre si rivela essere veritiera.

Adattamento di due racconti di Ueda Akinari, Ugetsu monogatari è un film etereo ed evanescente, dai molteplici livelli interpretativi. Un’opera sull’ambiguità della realtà ma anche un film che pone in primo piano l’importanza della famiglia, che deve sempre avere la priorità nella vita di un uomo. Per prendere in prestito le parole di Don Vito Corleone: “Un uomo che sta troppo poco con la famiglia, non sarà mai un vero uomo”. Una citazione che potrebbe ben calzare Ugetsu monogatari. I beni materiali, la fama e la fortuna personale non possono essere la principale preoccupazione per una persona. Ed il finale del film è il perfetto veicolo di questo messaggio: le due mogli, abbandonate dai mariti, non diverranno le protagoniste di una storia con il lieto fine. Anzi, la loro storia si concluderà in modo tragico.

Genjuro e Lady Wakasa, la donna che lo ha conquistato.

Ugetsu monogatari affonda le proprie radici nella prolifica e ricca tradizione del kwaidan, le storie di fantasmi ed entità soprannaturali che sono caratteristiche della cultura nipponica. Tuttavia, Mizoguchi tratta l’elemento sovrumano con estremo realismo e, proprio per questo, ciò che è altro ed oltre, il metafisico, non suscita paura nello spettatore, non è propriamente horror, sebbene questo film sia alla base del fortunatissimo genere noto come j-horror, creando la figura della fanciulla dalla carnagione chiarissima e dai capelli nero corvino. E proprio le donne, come tipico del cinema mizoguchiano, sono le vere protagoniste de I racconti della luna pallida d’agosto: pur essendo due uomini i protagonisti dell’azione del film, gli effetti della loro storia si riversa sulle figure femminili, dipinte come vittime della forza distruttrice dell’uomo, portatore di caos e dolore. Vittime che devono in qualche modo riscattarsi.

La psicologia dei personaggi non è lasciata al caso, è estremamente approfondita ed è profondamente legata all’uso dei piani sequenza nel film: “Se nella curva di una scena appare, con una forza crescente, un “accordo” psicologico, non posso allora eliminarlo d’un tratto senza rimpianto. Cerco allora di intensificarlo prolungando la scena il più possibile.” [“Kenji Mizoguchi”, Dario Tomasi, p.7, edizione Il Castoro] Il piano sequenza, dunque, diviene uno strumento per esaltare la tensione psicologica, in modo da non smorzarla con uno stacco di montaggio. Esso  aumenta anche il realismo del film, in quanto, come disse anche André Bazin, è una tecnica profondamente realista, poiché rifiuta il découpage tipico del cinema classico, restituendo in forma filmica l’unità spazio-temporale della realtà.

Un film imprescindibile per qualunque cinefilo, non solo per gli appassionati di cinema asiatico. Kenji Mizoguchi, in quel 1953, aprì definitivamente le porte del cinema giapponese all’Occidente, permettendoci di innamorarci di un nuovo modo di intendere il cinema, di un mondo culturalmente distante da noi e, proprio per questo, estremamente affascinante. Se non lo avete mai visto e vi volete bene, recuperate assolutamente questo Capolavoro. Sì, con la “C” maiuscola.