Diciamolo subito: È solo la fine del mondo segna un passo indietro nella filmografia brillante dell’enfant prodige Xavier Dolan.
Forse l’eco mediatico che sta accompagnando il talento canadese rischia di tramutarsi in una spettacolarizzazione fine a sé stessa.
Basato sull’omonima piece teatrale di Jean-Luc Lagarce in È solo la fine del mondo Louis, un artista di successo decide di far ritorno al suo paese natale per incontrare la famiglia che non vede da 12 anni, il viaggio dovrebbe segnare il suo commiato dai propri cari: Louis sta per morire e intende comunicarlo ai parenti.
Non sarà semplice affrontare questa famiglia, è chiaro già dalla maniera in cui madre, figlia e fratello maggiore attendono l’arrivo dell’artista invisibile nelle loro vite.
La diffidenza, la gelosia, l’irrisolto sono il terreno di un nucleo umano dove ogni attimo manifesta le proprie nevrosi: il fratello scontroso e pieno di astio nei confronti di una figura che l’ha sempre oscurato anche da lontano, una sorella che lo idolatra senza realmente sapere chi sia e una madre persa in una ritualità ricca di estremi che fa da magnete verso un isterismo collettivo.
Poi c’è l’outsider impacciato raffigurato dalla cognata Catherine, eppure è lei il personaggio col quale Louis raggiunge un’empatia, un feeling di sguardi, mediante dialoghi formali e al tempo stessi rivelatrici, lontani dal caos emotivo e identitario con cui gli altri soffocano le loro esistenze facendo di Louis il bersaglio della propia inquietudine.
Non c’è dubbio che la cifra registica di Dolan nel mettere in scena le crepe, le sfumature di questo dramma familiare sia unica. La struttura scenica ha una sua coerenza: primi piani ravvicinatissimi, una mescolanza di tonalità volte a restituire gli alti e bassi di un banchetto amaro, di individui saturi, incapaci di cambiare passo.
Un ritmo che anche la narrazione subisce privilegiando una circolarità di frasi e sentimenti indolenziti, in un’ atmosfera aggrovigliata nel suo stesso virtuosismo.
Dolan si accontenta di immortalare un candido e flebile raggio di luce che si affaccia nel mondo chiuso e compresso di un melodramma senza via d’uscita.
E non è perché siamo abituati a drammi che svelano gli intrecci e le motivazioni di un racconto allora appare inconcludente il vestito del sesto film di Xavier Dolan: il cinema è soprattutto impatto, sensazione, in È solo la fine del mondo la forma, che in Mommy era una grande virtù, si trasforma in autocelebrazione fotografica, musicale e scritturale dei nostri vizi migliori.