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Disobedience – La Recensione

C’è un’unica canzone che il regista cileno Sebastián Lelio usa diegeticamente (prima) ed extradiegeticamente (dopo) ed è Lovesong dei Cure. Il testo di Robert Smith dice:

“Ogni volta che sono solo con te, mi fai sentire come se fossi a casa di nuovo”

Quando l’anziano ed amato rabbino Krushka muore, la figlia Ronit (Rachel Weisz) è costretta a tornare nella grigia Londra per affrontare i fantasmi del suo passato. Ronit è un’affermata fotografa e lavora ormai da anni a New York dopo essere fuggita dalla comunità ortodossa ebraica in cui è cresciuta. Ad attenderla i suoi due amici d’infanzia: Esti (Rachel McAdams) e Dovid (Alessandro Nivola). Quello che Ronit ignora è che i due ormai da qualche anno si sono sposati. Tutta la comunità però è al corrente del passato tumultuoso delle due ragazze, un amore saffico, condannato dalla ortodossia cieca di una famiglia poco incline ad accettare quel legame “illegittimo”. Tra i preparativi della veglia funebre e la lettura del testamento del rabbino, il rapporto tra le due donne diventa di nuovo intimo e inarrestabile a fronte dell’impotenza e della crisi spirituale di Dovid.

Il regista Lelio non è nuovo a queste tematiche. Storie di donne forti coercise da obblighi sociali la cui unica risposta è appunto la “disobbedienza”. Era successo anche in Gloria nel 2013 e giusto un anno fa con Una donna fantastica (Una mujer fantástica).

Adattamento cinematografico del romanzo Disobbedienza (Disobedience) del 2007 della scrittrice ebrea inglese Naomi Alderman, la pellicola è stata sceneggiata insieme a Rebecca Lenkiewicz, già autrice di Ida. Il lavoro sullo script è sicuramente interessante, soprattutto nell’accuratezza con la quale la pellicola indulge sulle pratiche liturgiche, nel modo in cui ci catapulta in una realtà tanto grigia, anaffettiva e soffocante. Ma l’obiettivo di Lelio non è quello di denigrare la tradizione religiosa, bensì quello di evidenziare il lento e talvolta macchinoso processo di autodeterminazione. La capacità che ognuno di noi ha di imporre la propria identità sentimentale o sessuale che sia. Lelio e il film, sembrano rispettare le regole sociali anche quelle più arcaiche. L’attenzione dell’autore (o degli autori) è più che altro diretta al triangolo sentimentale tra Ronit, Esti e Dovid. Il percorso doloroso ed implosivo che li porta a prendere coscienza dei loro desideri e delle loro libertà a fronte di ciò che la famiglia e la società vuole per loro. Rabbini o mogli devote che siano.

Lelio mette in scena il tutto con sensibilità impressionante, nel rispetto di ogni parte. Quando però ci sono le scene di sesso tra le due donne, si lascia andare in passionale e sfrenati amplessi che fanno da contrappunto alle algide atmosfere londinesi. La fotografia solare a cui ci aveva abituati, ora, nella trasferta britannica (affidata a Danny Cohen, già prestigiosa firma de “Il discorso del Re”), è solo una variazione di grigi. Un plauso va poi alle scenografie domestiche e liturgiche di Sarah Finlay, che tolgono il fiato.

Infine il cast. Conoscevamo e apprezzavamo già l’attore italo americano Alessandro Nivola da Face-Off ai recenti lavori con J. C. Chandor(1981: Indagine a New York), Nicolas Winding Refn (The Neon Demon) e Lynne Ramsay(A Beautiful Day – You Were Never Really Here) . L’attenzione però è ovviamente tutta sulle due Rachel, in particolar modo la McAdams nella sua più bella e sofferta interpretazione di sempre.

Insomma un film riuscito e delicato, testimonianza di un autore colto e preparato, attratto dalle sirene hollywoodiane. Non ci resta che aspettare il remake americano della sua Gloria. Operazione non scontata, visto il fallimento in passato di gente come Haneke.