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Destroyer – La Recensione

Destroyer è un hardboiled chandleriano che risuona in testa come fosse una canzone in stile “Hollywood sadcore”. In pratica un poliziesco violento, disturbante, introflesso, polveroso e al femminile. Il volto emaciato e sofferente di un’immensa Nicole Kidman, sembra essere il ritratto di una Los Angeles con tanti conti in sospeso e sempre meno lustrini.

Sono lontane le precedenti prove della regista Karyn Kusama (Girlfight, Jennifer’s Body) ma c’è sempre una “lei” davanti all’obiettivo della discussa e discutibile autrice newyorkese. La protagonista di questo suo nuovo film è una eroina deformata dall’abuso di alcol e droghe, ma soprattutto da un passato irrisolto. Una donna armata e alla ricerca di vendetta più che redenzione.

Erin Bell (la Kidman), detective dell’LAPD è stata, qualche anno prima, un agente infiltrato insieme al collega e amante Chris, interpretato da Sebastian Stan (Bucky Barnes il Soldato d’Inverno della Marvel) in una missione poi finita con tanto spargimento di sangue. A distanza di anni però la sua nemesi, il suo personale fantasma è tornato a bussare alla sua porta. Il nome del cattivone è Silas (Toby Kebbell), un antagonista spietato a cui ora Erin deve dare la caccia.

Nel corso del film l’anima noir losangelina lascia il posto a momenti di action in puro stile Michael Mann. Lo spettatore ne gioisce. Erin diventa man mano sempre più violenta e decisa a portare a termine la sua missione, ricorrendo anche a violazioni del codice.

Se sorprende la regia matura e colta della Kusama, si resta di stucco nel vedere una Kidman in una delle sue migliori performance di sempre. Imbruttita e incazzata come non mai, la sua Erin buca lo schermo, dando vita ad un personaggio difficilmente dimenticabile. La Kidman ha già dimostrato in The Hours, la disponibilità di sacrificare e scarnificare il proprio corpo per una giusta causa. Ma il lavoro fatto per il personaggio di Erin, va ben oltre la trasformazione fisica. Nel film l’attrice traspira un malessere e un dolore ad ogni sguardo. Proprio quello sguardo su cui la Kusama apre e chiude questo suo gioiello. Resta da domandarsi come sia stato possibile escluderla dalla selezione dell’Academy.

Sobria ed impeccabile, la sceneggiatura di Phil Hay (marito e collaboratore della Kusama) e di Matt Manfredi si sviluppa, senza fatica alcuna, su due filoni temporali diversi che sembrano ricongiungersi in elegante plot twist finale.

Ottimo tutto il resto: la fotografia polverosa di Julie Kirkwood, la sobria OST di Theodore Shapiro, fino al “disturbing editing” di Plummy Tucker. Tutti collaboratori di vecchia data della Kusama.

Tra i migliori polizieschi degli ultimi anni.