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Columbus – Una non storia d’amore

C’è una cittadina in America ed esattamente nello Stato dell’Indiana, si chiama Columbus ed è stata ribattezzata l’Atene della prateria. Si tratta di un curioso e straordinario esperimento architettonico nato negli anni ’40 per iniziativa magnate Irwin Miller.

In pratica Columbus è un vero e proprio museo vivente. Qui alcuni dei principali architetti americani, hanno avuto massima libertà di espressione per edificare una città che fosse un manuale d’architettura. Posto incantevole, dove l’esordiente Kogonada, ha ambientato la sua opera prima, appunto “Columbus”.

Jin (John Cho) arriva nella cittadina dopo che suo padre, un rispettato professore, è entrato in coma alla vigilia di un discorso importante. Qui il ragazzo conosce la giovane Casey (Haley Lu Richardson), appassionata del lavoro del padre di Jin.

Due personaggi in cerca di una loro dimensione e un incontro destinato a cambiare le loro esistenze per sempre. Jin infatti vive un rapporto conflittuale con l’ingombrante figura paterna e con le sue opere. Casey invece soffoca le sue ambizioni, convinta che la piccola cittadina, sia già in grado di soddisfare ogni sua prospettiva futura.

Il film diventa così una mostra fotografica di opere architettoniche post moderne, sullo sfondo di dialoghi raffinati ed esistenziali.

Kogonada però non sembra solo interessato al modo in cui le cose e le persone occupano lo spazio della sua inquadratura, ma come esse interagiscono tra di loro.

Il rapporto tra Casey e Jin è sempre più complice e coinvolgente.

A tratti ricorda un’altra meravigliosa “non storia d’amore” come quella messa in scena da Sofia Coppola in “Lost in Traslation”. Il rapporto consolatorio e l’amore sussurrato tra la coppia Murray/Johansson sullo sfondo di Tokyo, sembra essere lo spunto per Kogonada nella costruzione di questa venusta “architettura” narrativa.

Nella stessa misura Columbus deve molto anche alla trilogia “Before” di Linklater, soprattutto nel modo in cui i personaggi interagiscono nella struttura urbana che li ospita.

Ma il dichiarato omaggio del regista è un altro.

Soprattutto nella magistrale costruzione delle inquadrature, l’autore si rifà infatti a Yasujiro Ozu. Dal maestro giapponese, Kogonada, prende in prestito il suo nome di battaglia che nasce dal grande sceneggiatore giapponese Kōgo Noda, autore tra il 1924 e il 1965 delle sceneggiature di ben 170 film, buona parte dei quali diretti dallo stesso Ozu.

Notevole la prova dei due giovani attori.

John Cho, coreano come il regista, sembra un suo alter ego e deve la sua notorietà alla saga di “American Pie”, “Harold & Kumar”  e “Star Trek“. 

Discorso diverso per Haley Lu Richardson, famosa per la serie “Pretty Little Liars” e per film come “Split” di M. Night Shyamalan e “17 anni (e come uscirne vivi)”.

Impossibile inoltre non menzionare la ricercata Ost del film, curata da Hammock, alias Marc Byrd e Andrew Thompson, un duo ambient/post-rock con forti contaminazioni shoegaze. 

Perfetto contrappunto sonoro a questa meravigliosa cartolina emozionale creata da Kogonada.

Tirando le somme “Columbus” è una pellicola equilibrata ma passionale, algida e al contempo coinvolgente, un piccolo gioiellino indie su due giovani impegnati a diventare adulti.

D’altronde come diceva Le Corbusier: “L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi”.

Recensione a cura di Giuseppe Silipo