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Ciclo Cassavetes: Mariti (1970)

L’analisi di Vincenzo Politi

Noi appassionati di cinema del nuovo millennio abbiamo i gusti piuttosto raffinati: ci piacciono quei film dove la recitazione è congruente alla sceneggiatura, non riteniamo che l’azione sia necessariamente superiore alla narrazione e sappiamo valutare con spirito critico la scrittura di un film. Siamo stati abituati bene. Ci siamo fatti le ossa con la sfacciata schiettezza del Dogma ’95 e abbiamo testimoniato la renaissance del cinema indipendente . Siamo passati per i ‘film parlati’ di Richard Linklater e per il cosiddetto mumble-core. Eppure, non molti si ricordano di John Cassavetes, colui che, in un certo senso, ha rivoluzionato il cinema, facendo completamente a meno di effetti speciali e colpi di scena incredibili. Colui che si è spinto oltre i limiti esplorati dal neo-realismo e dalla Nouvelle Vague, arrivando a disintegrare persino l’idea stessa di ‘trama’, creando dei film in cui la storia è creata dai personaggi, non viceversa.

Prima dei discorsi esistenziali-adolescenziali di Boyhood e del romanticismo-realista dei dialoghi fra Julie Delpy e Ethan Hawke nella celebre trilogia dei Before, prima ancora di un capolavoro assoluto come La mia cena con André (film di due ore e passa con due soli personaggi che cenano e chiacchierano e nient’altro), prima di tutti questo c’erano, appunto, i film di Cassavetes.

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John Cassavetes

Senza dubbio, John Cassavetes è una delle figure più originali e esuberanti nella storia di Hollywood. Uomo carismatico e intrigante, dal fascino mediterraneo, Cassavetes sembrava destinato a diventare una star del grande schermo, un Paul Newman dai capelli e dagli occhi scuri come la notte. Invece, rinunciando alle glorie dei red carpets e delle fan urlanti in visibilio, Cassavetes decise di votare la sua esistenza a una sola missione: rimanere fedele alla sua idea di cinema e di recitazione.

 Ciò non significa che non si sia mai ‘sporcato le mani’ con le grandi produzioni Hollywoodiane. Al contrario, Cassavetes spesso accettava di comparire in qualche grosso film per il grande pubblico, o di recitare per un paio di episodi in qualche serie televisiva. Così facendo, era in grado di guadagnare i soldi necessari per girare i suoi film, per dare vita a quei personaggi così reali e allo stesso tempo così spettrali che lo ossessionavano e che esigevano una grande attenzione creativa e sensibilità registica. Proprio ‘compromettendosi’ coi soldi delle majors Hollywoodiane, fu anche in grado di finanziare la Faces International, casa di distribuzione di sua proprietà. In altre parole, Cassavetes riuscì a creare un cinema nuovo proprio perché fu in grado di mantenere la sua indipendenza e l’integrità artistica dei suoi film, dalla produzione fino alla distribuzione.
Così, se da un lato il grande pubblico se lo ricorda più che altro nel terrificante Rosemary’s Baby di Roman Polanski, nel ruolo dell’enigmatico marito di una fragilissima Mia Farrow, non molti sanno che fu proprio col caché di quel film che Cassavetes produsse Mariti, il film che in un certo senso lo ha consacrato a icona, o addirittura padre, del cinema indipendente.
Prima di Mariti, Cassavetes aveva girato altri film. Uno di questi, Volti, era stato anche accolto molto positivamente. Fu proprio con quel film, infatti, che Cassavetes si era portato a casa anche qualche nominations agli Oscar, imponendosi all’attenzione della critica e di buona parte del pubblico. Ma fu proprio dopo Volti che decise di passare il Rubicone stilistico una volta per tutte e di non scendere più a compromessi. Il primo risultato di questa decisione estrema è appunto Mariti.
Il film Mariti racchiude tutte le caratteristiche del cinema maturo di Cassavetes. Lo stile è realistico, a tratti addirittura documentaristico. Le scene sono lunghissime, spropositate, come se ogni singola scena lottasse per emergere e per ritagliarsi uno spazio maggiore all’interno della pellicola. Infine, la recitazione: quello di Cassavetes è un cinema improntato sulle capacità recitative dei suoi pochi, soliti e bravissimi attori. Cassavetes chiedeva ai suoi fedeli attori l’impossibile: non rispettare un copione, ma addirittura ‘crearne’ uno attraverso l’improvvisazione e la libera interazione. Gli attori di Cassavetes, e Cassavetes stesso, quando recitava nei suoi film, dovevano calarsi a tal punto nei propri personaggi da ‘diventare’ quei personaggi, parlare come loro, comportarsi come loro. La direzione di Cassavetes offriva l’idea, la struttura scheletrica della storia, l’ambientazione; tutto il resto, era improvvisazione, arte interpretativa e lavoro di squadra.
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Ben Gazzarra, John Cassavetes e Peter Falk in una scena di Mariti (1970)

L’idea, la ‘trama’, la struttura scheletrica della storia raccontata in Mariti è la seguente: tre amici vicini alla quarantina – Archie, Gus e Harry – trascorrono del tempo assieme dopo il funerale del loro amico Stuart. Insieme, i tre amici parlano dell’amico scomparso, dei bei tempi andati, della gioventù che fugge via, del matrimonio, delle donne, della morte, di quella vita che non è mai come ce l’aspettavamo. I tre amici parlano, parlano, parlano. Spesso farneticano, visto che sono ubriachi fradici. La prima mezz’ora del film sembra addirittura senza senso: è come guardare tre uomini in piena crisi di mezza età comportarsi in maniera patetica, spesso infantile, rincorrersi per strada come bambini, giocare a pallacanestro coi cappotti addosso, cantare a squarciagola canzonette da osteria in una squallida taverna immersa in una semioscurità etilica. E poi parlano, parlano, parlano, una scena dopo l’altra, una scena più lunga e più inconcludente dell’altra.

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Peter Falk, John Cassavetes e Ben Gazzarra in una scena di Mariti (1970)
Eppure, è proprio lasciandosi travolgere da quel fiume impetuoso di dialoghi quotidiani e spesso superficiali che, di tanto in tanto, si intravede qualcosa, il barlume di una rivelazione, un segreto indicibile e inesprimibile che si manifesta per pochi istanti, mentre si parla d’altro, mentre si vive.
Dopo le scorribande del pomeriggio successivo al funerale di Stuart, Harry torna a casa, ubriaco, litiga con la moglie, non ne può più di lei, in preda a un euforico stato confusionale decide di andare a Londra. Archie e Gus si fanno convincere e decidono di seguirlo. A Londra, i tre spendono e spandono fra alberghi, prostitute e casinò, parlano e parlano ma non riescono mai a dire ciò che vorrebbero urlare, quel dolore sottile che opprime i loro cuori tristi, che li fa ridere sì di cuore, a squarciagola, ma non proprio di gioia. Ed è proprio guardando le peripezie di Archie, Gus e Harry che noi spettatori riusciamo a vedere noi stessi: quei tre ubriaconi siamo noi tutte le volte che abbiamo perso tempo, tutte le volte che ci siamo ricordati di essere vivi solo attraverso la morte di un altro, tutte le volte che abbiamo parlato non dicendo mai ciò che conta davvero, o dicendolo solo da ubriachi, facendo finta che sia una battuta, che sia tutto un gioco, che tanto è meglio riderci sopra.
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Archie, Harry e Gus, protagonisti di Mariti (1970)
Mariti si affida spesso a un umorismo agrodolce che prende corpo grazie a uno scambio continuo di goliardie fra i tre grandi, grandissimi interpreti del film. John Cassavetes è non solo il regista del film, ma anche Gus, forse il più malinconico dei tre. Un gigantesco Ben Gazzara è Harry, un personaggio impetuoso, impulsivo, che risponde agli scossoni dell’esistenza tuffandosi nella vita con forza, con disperazione. Infine, il macchiettistico e forse incompreso Archie è affidato al celebre sguardo sghembo di Peter Falk. E del resto anche per Peter Falk, come per Cassavetes, ci sarebbe da fare un discorso sulla sua ‘doppia vita’: famoso quasi esclusivamente per avere interpretato il famoso ispettore Colombo, ruolo televisivo che lui aveva accettato giusto per garantirsi uno stipendio, Peter Falk in realtà era un attore alternativo, a tratti addirittura underground, un vero e proprio simbolo del cinema indipendente. Chi lo avrebbe mai detto? Eppure, dopo aver girato l’ennesimo episodio dell’Ispettore Colombo, Peter Falk correva a girare film folli e surrealisti con Sydney Pollack o con Wim Winders (indimenticabile il suo ruolo in Il Cielo sopra Berlino) o, appunto, con il suo grande amico John Cassavetes.
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Mariti (1970) – titoli di testa

Mariti offre uno sguardo in stile cinéma vérité e quasi voyeuristico su tre uomini in crisi. Un film che conduce, scena dopo scena, un’analisi spietata sul concetto di virilità e sull’essere ‘uomini’ in un mondo che non consente agli uomini di esprimere i propri sentimenti se non sotto gli effetti dell’alcol e solo di fronte a situazioni tragiche, quindi socialmente accettabili, come la morte di un amico. Non a caso, i titoli di testa ci mostrano una serie di fotografie di Stuart, Harry, Archie e Gus, in posizioni virilissime, a petto nudo, coi bicipiti in mostra, come ‘veri uomini’. Ma il filo sottile su cui molti uomini camminano in equilibrio per tutta la vita si spezza con la morte di Stuart, lasciando i suoi tre amici in preda a una confusione senza risoluzione, come bambini che non sanno più come giocare, orfani tristi.

Dopo Mariti, i personaggi di Cassavetes diventeranno ancora più complessi, strani, problematici, in un cinema che si dedicherà sempre di più alle storie degli emarginati, degli incompresi, dei folli. Ciononostante, Mariti rimane una chiave di volta nella cinematografia di Cassavetes, un regista e attore che invece di mettersi al centro dell’attenzione ha preferito mettersi sullo stesso livello dei suoi attori, spesso anche co-protagonisti, e, soprattutto, dei suoi personaggi: quegli emarginati, quegli incompresi, quei folli da cui Cassavetes si è sempre sentito attratto, come fosse, anche lui, uno di loro.