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Ciclo Bergman: Sussurri e Grida (1972)

Quarta ed ultima puntata del “Ciclo Bergman”. Come sabato scorso, saranno quattro le mani che analizzeranno il film di oggi, Sussurri e grida.

 

L’ANALISI DI CAROLINE FREYAA DARKO 

Titoli di testa, una campana e un velo di colore completamente rosso. E’ così che ha inizio ”Sussurri e Grida”, di Ingmar Bergman.
Ed è proprio il rosso che ha qui un’importanza fondamentale.

 

Agnese, una donna afflitta da un male incurabile, è a letto e tramite i suoi movimenti, riusciamo a carpirne il dolore tramite il dolore stesso.

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Ecco, lunedì mattina presto e sto soffrendo”, scrive sul suo diario.

Ella è malata gravemente, talmente tanto che il male le provoca crisi respiratorie e dolori.
Agnese viene assistita da Anna, la cameriera, e le sue sorelle Maria e Karin.
In una scena molto rilevante, Agnese rammenta sua madre che ora non c’è più. Ora lei la capisce, è maturata e riesce a comprendere i suoi comportamenti, le sue intenzioni, i suoi pensieri, la severità: la sua malinconia.
Perché è solo quando hai raggiunto una certa maturità che riesci a vedere davvero.

Lei era l’unica ad essere un po’ esclusa dalla madre, mentre con Maria aveva tanto da dirsi.
Agnese amava osservare sua madre, l’ammirava, l’amava ma al contempo la invidiava nel suo interno.
Avrebbe voluto possedere la sua bellezza, la sua dolcezza, perché ella era una donna capace di far sentire la propria presenza. Agnese ora è capace di capire, di cogliere qualcosa che i suoi occhi da bambina non potevano vedere.
Il dottore la visita e dopo si sofferma a baciare Maria.

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Cinque anni prima. Maria aveva abitato in quella casa con suo marito. La figlia di Anna, la cameriera, si sentì male e il dottore venne per visitarla. Maria nutre un forte interesse nei suoi confronti; i due infatti, mantengono una relazione segreta.

Sei bella, sei forse anche più bella di allora, ma sei tanto cambiata. Vorrei che vedessi quanto sei cambiata. I tuoi occhi hanno sguardi rapidi e sfuggenti, un tempo guardavi tutto e tutti apertamente, senza crearti una maschera.”

Lo sai da dove ti vengono queste rughe, Maria? Dalla tua indifferenza”. 

La donna che un tempo amava ora è superficiale e indolente, inavvertibile, annoiata, furtiva e lui, il superuomo che parla.

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Li vedi in te stesso, perché noi siamo uguali, tu ed io”, gli risponde lei apertamente. In una delle scene più belle e significative del film, notiamo un amore malandato, due persone corrose dal tempo; vediamo come un individuo presti al volto una maschera (tematica già trattata in ”Persona”, con la medesima Liv Ullmann).
Notiamo il disprezzo, l’egocentrismo, l’indifferenza dell’essere umano ma al contempo ciò è quasi sinonimo di attrazione fisica. Il rosso qui, sull’abito di Maria, simboleggia una passione rovente e repressa.
Il rosso delle pareti è glaciale come il dolore, è il calore del peccato, della lussuria, occultata dalle pene, sofferenze simili al sangue che sgorga dalle ferite.

Lo stesso sangue che fuoriesce dopo, dal corpo di Joaquin, il marito di Maria che ella stessa trova accoltellato in camera. Ogni scena nella dissolvenza, presenta il velo rosso alla Hitchcock, un tocco di classe e di maestria registica.
Il flashback finisce e Agnese è dolorante a letto. Vuole ricongiungersi con sua madre una volta per tutte e Anna, trattandola da figlia, la consola e la stringe tra le braccia. Ma Agnese sta male.

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Il cinema di Bergman sempre si presenta realistico, illusorio, teatrale: VERO. Riesce a raggiungere ogni confine, ogni limite umano, soprattutto nella sfera emozionale.

Maria e Karin accudiscono Agnese che ha avuto un attacco respiratorio; la lavano, la vestono, la dissetano, leggono per lei.

Agnese potrebbe morire da un momento all’altro e tutto ciò di cui ha bisogno è qualcuno che le stia accanto. Affetto, amore, solidarietà. Le crisi respiratorie della donna ci portano nell’orrore, nell’angoscia più mera, nella disperazione: nella paura. E la sua morte, ci fa cadere anche noi nel baratro mentre il pianto di Maria ci tocca l’anima, anche durante il funerale.

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Flashback. Anni prima anche Karin abitava nella villa con suo marito Friedrick.

E’ solo un insieme di bugie, tutta la vita”, dice lei mentre il marito lascia la tavola, rompendo un bicchiere di vetro. Karin è la più dura delle sorelle, la più severa, ma solo perché nasconde dietro tanta fragilità: è la sua maschera. Perché ogni personaggio, ogni persona, ne porta una con sé.

Il cinema di Bergman quindi, risulta essere un quadro Pirandelliano di un mosaico a colori. La vita di Karin non è altro che un insieme di bugie; è come quel bicchiere da lei frantumato: rotta. Ella nella disperazione, si auto-flagella, inserendosi il pezzo di vetro della bottiglia nelle parti intime. E qui, è presente l’atto di sadismo e il masochismo più puro, perché Karin ne gode. Ne gode leccandosi lascivamente le labbra, macchiandosi del suo sangue e assaporandolo. Macchiandosi di rosso.
E con la classica dissolvenza, il flashback ha fine.

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E’ interessante come Bergman caratterizzi ogni personaggio senza trascurare nessuno, delineandoli dettagliatamente come se fossero tutti protagonisti. Le sorelle vivono nella stessa casa ma sono estranee, fredde, tra loro. Non si conoscono, ma fanno riferimento solo alla loro maschera, perché è l’unica cosa che hanno incontrato dell’altra. Maria implora Karen di avvicinarsi ma lei si allontana e legge il diario di Agnese.

Ho avuto il regalo più bello che una persona possa ricevere in vita sua. Il regalo ha molti nomi. Solidarietà, amicizia, calore umano, affetto. Credo che la grazia sia proprio questo.

Karin odia ogni tipo di contatto umano mentre Maria pur essendo superficiale, ora lo ricerca, perché ha paura, paura della freddezza umana. Karin rifiuta l’affetto poiché è per lei come una tortura, ma piange, per il senso di colpa. Mostra la sua debolezza, lei che spesso pensa al suicidio come una soluzione. La vita è per lei angoscia ed ella è instabile, fragile, piena di odio. E’ sola e lei vede tutto, ciò che non riusciva inizialmente a fare la povera Agnese.

Maria l’ascolta ma è falsa, cinica e sorride. Non si può mai sapere ciò che lei pensa, rimane schiava del silenzio. E sotto le note di Bach, le due si lasciano andare e si donano affetto, chiarendo ogni incomprensione. Ed è tutto così dannatamente macabro.

Successivamente, Anna trova immobili le due donne ed è questo un rammento quasi all’horror psicologico. Agnese, infatti, morta, sta piangendo e comunica con le donne. Un dramma orrifico soccombe in una delle scene più belle del cinema di Bergman. Maria vine abbracciata e baciata dal cadavere e in preda al timore, scappa via urlano in maniera agghiacciante, mentre Anna decide di prendersi cura di lei e l’allatta a gambe aperte.

Nell’epilogo, le donne lasciano casa mentre Anna rimane a leggere il diario di Agnese, Le due parlano riguardo al loro avvicinamento e si fanno la promessa di mantenere i propositi. Karin, se ora credeva di aver capito finalmente Maria, si rende conto di quanto la maschera della donna sia in realtà… la realtà stessa.

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”Oggi mercoledì 3 settembre, nell’aria c’è già un sospetto d’autunno, ma è dolce, quasi delicato. Le mie sorelle Karin e Maria sono venute a trovarmi. E’ meraviglioso essere insieme come i vecchi tempi”, dice il diario di Agnese. Lo fa ricordando il passato insieme mentre passeggiavano con amore come un tempo la loro madre faceva. e niente più mancava, non si poteva desiderare nient’altro.

La fotografia di Sven Nykvist è essenziale e racchiude il lirismo di Bergman, che riesce ad aprire gli occhi al cuore femminile e a mettere a nudo ogni fragilità.

I suoi personaggi sono bloccati da mura borghesi, dalla superficialità dell’alta società, inchiodati lì dentro e messi a confronto con le proprie intimità e debolezze. Incatenate dalla loro stessa essenza.

Perché oltre ai sussurri e alle grida, c’è anche la serenità.

Sorridetele.


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L’analisi di Vincenzo Politi .

 

Agnese è malata.
Da molti anni è afflitta da una grave malattia che le provoca problemi respiratori e dolori atroci, costringendola a rimanere a letto per lunghissimi periodi.
A volte trova le forze per alzarsi e scrivere poche righe sul suo diario. Agnese sta morendo.
Ad assisterla negli ultimi giorni della sua vita ci sono le sue sorelle, Karin e Maria, assieme alla cameriera Anna.
Pur trovandosi tutte sotto lo stesso tetto, nella grande casa che le protegge e le isola, che forse addirittura le tiene prigioniere, queste quattro donne raramente riescono a comunicare fra di loro. Spesso Agnese, stremata dalla fatica e dai dolori fisici, non riesce a parlare e nemmeno a respirare bene.
Quando parla, però, parla della sua condizione fisica, dice se si sente meglio o se si sente peggio, nient’altro.

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Il rosso domina

Agnese non parla di sé, ma solo della sua malattia.
Perché, in un certo senso, le persone malate sono meno ‘persone’ delle altre.
Smarriscono la loro identità, ‘diventano’ la loro stessa malattia. Agnese si adegua al copione imposto dalle regole sociali e l’unico dialogo sincero che riesce a avere è quello con sé stessa e con i propri ricordi.
Le due sorelle, nel frattempo, sono totalmente assorbite dai loro problemi.

Maria, la più giovane, è una donna ambigua e capricciosa.
Da tempo tradisce il marito, il quale forse sospetta, forse ha capito, forse sa, forse non sa, forse chissà.
Karin, invece, è una donna glaciale, severissima e rigorosa con tutti e prima di tutto con sé stessa, che indossa una maschera di austerità per nascondere la sua terribile angoscia, la sua consapevolezza dell’assurdità della vita.
Quelli delle due sorelle sono problemi privati, decisamente molto meno  apparenti o ovvi dell’agonia di Agnese.
Ma forse non meno micidiali.

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Anche Anna, la cameriera, deve combattere i demoni del proprio passato e fare i conti con il dolore di una ferita che non riesce a richiudersi.
Al punto che l’abnegazione e la devozione che dimostra nell’accudire Agnese, umilmente e silenziosamente, da anni, forse non sono né pietà né senso del dovere, ma solo un modo per far tacere le voci dei ricordi che, spettrali, la assalgono in quei giorni in cui il vento si fa più furioso.
Agnese infine muore, lasciando Karin e Maria a discutere sul da farsi.
L’organizzazione del funerale, se vendere o no la casa, il futuro di Anna, piccoli dettagli quotidiani.

La trama di Sussurri e Grida, capolavoro del 1972 del maestro Bergman, è tutta qua.
Quattro donne che si aggirano fra le stanze e i corridoi di una casa enorme, ognuna persa nel proprio mondo di ricordi, di ansie, di pensieri crudeli che non lasciano via di scampo e, come il vento, non tacciono mai.
Come succede in molti capolavori, però, l’essenza di Sussurri e Grida non è la storia che racconta.
Ma come la racconta.
La narrazione intreccia la vita quotidiana nella grande casa con una serie di flashbacks, introdotti da sfolgoranti dissolvenze di un rosso sanguigno, che ci raccontano i ricordi più intimi e inconfessabili delle quattro donne e gettano una luce inaspettata sulle loro manie, sulle loro striscianti psicosi.

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L’altro colore dominante della pellicola è il bianco.
E’ il colore dei vestiti delle quattro donne, che richiama il pallore del volto sofferente di Agnese, o la staticità glaciale di un panorama invernale, dove tutto è sospeso e immobile, congelato, morto.
La simbologia dei colori di Bergman non è di difficile interpretazione.
In molte tradizioni il rosso e il bianco sono i colori del lutto, assieme al nero, che infatti affiora anche negli abiti di Karin e Maria.
Non è quindi difficile capire che Sussurri e Grida, in fondo, non è altro che un film sulla morte.
Non sulla morte come un evento improvviso che frattura e interrompe la vita – non, quindi, sulla morte come la negazione, l’opposto della vita – ma, semmai, sulla morte che fa parte della vita, che le da un senso vanificando e polverizzando ogni altro senso possibile.

La morte degli altri che ci ricorda la vulnerabilità delle nostre vite e che, in fondo, è la morte che ci guarisce dalla vita.
A dominare incontrastato sull’inferno in cui vagano le quattro donne di Bergman è il tempo. Da una parte, c’è il tempo dei ricordi e dei pensieri personali, un tempo soggettivo e ‘fenomenologico’, che ci porta indietro, che si attorciglia su sé stesso in modo non lineare.

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Dall’altra, c’è il tempo oggettivo.
Misurato con implacabile precisione dalle lancette degli orologi, quel tempo che scorre, distruggendo ogni cosa, che ci piaccia o no.
Quel tempo che continuerà a scorrere anche dopo di noi.
Ciò che Bergman sembra voler dirci, però, è che neanche di fronte alla morte e all’indifferente crudeltà del tempo la nostra mente riesce a abbassare la guardia, a farci stabilire un contatto genuino e reale con gli altri. Le quattro protagoniste di Bergman, infatti, coabitano ma non  condividono nulla di veramente autentico e sincero.

I rapporti di queste quattro anti-eroine sono superficiali, a volte freddi, caratterizzati da un’incomunicabilità profonda che le tiene prigioniere come uccelli in gabbia.
Ma l’incomunicabilità descritta da Bergman non è quella ‘borghese’ dei film di Michelangelo Antonioni.
Non è la sterile conversazione intellettualistica che riverbera per gli appartamenti della ‘Milano da bere’ in La Notte o la vacuità della ‘swinging London’ rappresentata in Blow Up.

Quella di Bergman è un’incomunicabilità più profonda, più ‘esistenziale’. Se nemmeno qualcosa di così terribile come la malattia, la sofferenza o la morte riescono a farci uscire fuori dalle nostre prigioni mentali, allora significa che non c’è veramente redenzione per noi, povere anime dilaniate dai nostri monologhi interiori, noi che siamo così soli nel momento in cui nasciamo e moriamo, ma che ci ostiniamo a vivere ogni giorno nella ridicola illusione di non esserlo.

Forse, dunque, è proprio vero che ciò che ciò che diciamo – l’incalcolabile quantità di parole che pronunciamo giorno dopo giorno dopo giorno, le storie che raccontiamo agli altri e soprattutto a noi stessi per cercare un significato nel trascorrere del tempo, per imporre, costruendola o inventandola, una ‘trama’ che dia un senso alle nostre vita – non è altro che un insieme di bugie, come già Karin sospetta da tempo.
Bugie che ci tengono in vita, nonostante la vita stessa non sia altro che un insieme di bugie.

Allora, può essere che la verità di quella cosa terribile e inesprimibile che ci opprime, quell’angoscia che non può essere articolata con il nostro linguaggio meschino e bugiardo, possa riaffiorare con tutta la sua prepotenza solo sul nostro corpo. Un corpo fuori controllo, che si rifiuta di sottomettersi al rigore di Karin. O più semplicemente un volto.

La parte di noi che più ci rappresenta davanti agli altri e che noi non riusciamo mai a vedere, capace di rivelare doppiezze e meschinità, come succede a Maria in una folgorante scena davanti allo specchio.
In quei momenti, quando le nostre emozioni e i nostri sentimenti si rifiutano di essere espressi linguisticamente, e riescono dunque a esprimersi attraverso il linguaggio del corpo, la comunicazione più genuina non è più fatta di parole bugiarde, ma di baci, abbracci, carezze, di contatto umano, di ciò che gli occhi, cercandosi, riescono a trovare – al punto che, in quei momenti, le parole perdono tutta la loro importanza e non ha più nemmeno troppo senso riuscire a ascoltarle.

Ma sono solo momenti di estremo, folle, incontrollato abbandono, epifanie che squarciano la tela uniforme delle nostre conversazioni banali e vuote, mai sincere. Poi si ritorna in sé stessi, a indossare la propria maschera, a abitare le nostre galere di solitudine. Come fanno, del resto, le protagoniste di Sussurri e Grida.
Non sarebbe giusto parlare del tritacarne esistenziale allestito da Bergman senza menzionare le quattro grandissime attrici che si immolano, con assoluta abnegazione, sul patibolo del cinema. Harriet Andersson incarna la maschera di dolore di Agnese con una fisicità assoluta, che non lascia via di scampo. Kari Sylwman è Anna, con lo sguardo sempre basso e la voce rispettosamente timida, così sottomessa e obbediente, così dilaniata dal suo inferno interiore che nessuno sospetta o che, più semplicemente, non importa a nessuno.

Ingrid Thulin è una Karin semplicemente maestosa in tutta la sua neurosi auto-distruttiva, spaventosa e spaventata, il cui sguardo cerca l’amore senza tuttavia concederne un briciolo. Ultima, ma ovviamente non ultima, è Liv Ullman, musa e feticcio di Bergman, qui addirittura in un duplice ruolo.
Quello della madre delle sorelle, una grande matriarca distratta e incapace di amare le sue figlie, rievocata dai ricordi di Agnese.
E quello di Anna, la sorella più piccola, la più viziata, forse anche la più amata da quella madre così distante e irraggiungibile.
Una Anna bugiarda, fragile e seduttrice, crudele come sono crudeli i bambini, e che la Ullman costruisce, inventa e fa propria con il suo sorriso ambiguo e uno sguardo a tratti luciferino.

Infine, ci sarebbe da domandarsi: che genere di film è Sussurri e Grida? Domanda forse banale, ma dalla risposta tutt’altro che scontata. Lo spettatore non saprà mai quanto c’è di reale e quanto c’è inventato nei flashbacks delle quattro donne. Del resto, come possiamo essere sicuri che i ricordi di un bugiardo siano più veri delle cose che dice? Tutto, in Sussurri e Grida, è onirico, anti-realistico.
Come se la vita, quella ‘vera’, fosse solo qualcosa di immaginato, diverso da ciò che si è vissuto nella ‘realtà’. Così come la morte. A dare il colpo di grazia a Karin, Maria e Anna, infatti, è ciò che succede dopo la morte di Agnese e la loro reazione di fronte a quell’evento traumatico e inspiegabile forse racchiude il mistero, o addirittura la definizione, delle loro vite.

Se la vita contiene la morte, pur rinviandola, cosa possiamo fare di fronte alla morte che si affaccia sulle nostre vite?
Possiamo rifiutarla. Possiamo fuggire via. O, più semplicemente, possiamo spalancare le nostre braccia e accoglierla. Perché, come forse riesce a capire Anna, è la vita che nutre e accudisce la morte. E come forse aveva capito anche Agnese quando, da viva, riusciva a sorridere alla morte. Tutto questo, Bergman non lo dice.
Ma semmai lo ‘mostra’ in una scena emblematica, occulta, che arricchisce il film di una dimensione surreale, quasi horror.

Cos’è, dunque, Sussurri e Grida? Un trattato filosofico? Una saga familiare mitteleuropea fin de siècle? Un racconto gotico? Sussurri e Grida è tutte queste cose pur non essendone nessuna in particolare. Un film che sfugge ogni definizione e ogni facile etichetta. Qualcosa che non deve essere spiegato, ma che bisogna sentire.