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Ciclo Bergman: Persona (1966)

Per questo terzo appuntamento con il “Ciclo Bergman” abbiamo deciso di fare le cose in grande. Saranno due i pareri che analizzeranno una delle sue più grandi pellicole: Persona.

 

L’analisi di Caroline Freyaa Darko 

 

”Persona” parte, s’addentra nell’inconscio dello spettatore ed è una proiezione astrale di un’illusione ottica e mentale, di una materializzazione del subconscio umano. Con un rumore disturbante che è la rappresentazione delle scene conturbanti che seguiranno.
Il bianco e il nero regnano sovrani e son riprodotti dall’immensa fotografia di Sven Nykvist.

Una tarantola, un animale sviscerato, mani inchiodate… è questo il trip iniziale che ci preannuncia l’intero film: tutto nello psichedelico excipit. Bergman tenta, così, di infastidire l’occhio umano e di intenerirlo subito dopo, con le immagini di un bambino mentre legge una storia, la storia. Egli ci guarda, la sua mano passa sullo schermo e appare il volto materializzato di una donna, offuscato, mentre ne diviene un’altra. E’ come uno specchio riflesso e più, un‘illusione ottica. Ed ecco che prende vita ”Persona”.

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Elisabeth Vogler.

Le musiche di Lars Johan Werle, classiche, sinfoniche, psichedeliche al punto giusto, ci fanno sentire come se fossimo in un film dell’orrore, poi ci trasportano nel dramma.
L’attrice Elizabeth Vogler ha un attacco di infermità durante l’opera teatrale dell’Elettra e ne rimane muta. Ella, nonostante ciò, risulta sana. Alma, infermiera di 25 anni, ha l’incarico dalla dottoressa di assisterla.
”A prima vista il suo volto sembra dolce, quasi infantile. Ma i suoi occhi hanno qualcosa che sconcerta. Il suo sguardo è duro, severo”, dice Alma di Elisabeth.
Alma sul piano psichico si sente inadatta ad assistere l’attrice, che avrebbe bisogno di qualcuno con più esperienza, pur essendo lei stessa competente e un’ottima oratrice.  La protagonista è ora muta e comunica solo in un modo: con gli occhi.  E il mistero cresce, attorno a Elisabeth Volger. Cosa avrà per comportarsi così?

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Elisabeth e Alma.

E’ con i primi piani e gli zoom che Bergman ci parla e ci emoziona, mostrando le varie sfumature dell’anima. Elizabeth è turbata, sconcertata, silenziosa e tragica. Alma ed Elizabeth, successivamente, vanno a passare un po’ di tempo in una casa al mare messa.
‘Provoca quasi un senso di voragine, il timore di essere scoperta, vero? Messa a nuda, smascherata. Poiché ogni parola è menzogna e falsità, ogni sorriso è una smorfia’‘.
Ciò che ammotulisce Elisabeth è solo la paura, ma non basta celarsi. Non basta. Al mare, in estate, le due sembrano essere serene e in armonia tra di loro. La pellicola è uno scorrere di immagini in bianco e nero, con sottofondo la voce soave di Alma che parla, narra e ci racconta. Ella ci mette dinanzi a uno specchio con noi stessi, di fronte alla vita.

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Elisabeth.

Ed è proprio vero che Bergman ci dà da pensare e ci mette in conflitto col nostro ego, donando immagini illusorie e dimensionali. Perché il cinema è proprio questo, un’arte basata sull’illusione ottica di un’immagine in movimento. Le due protagoniste sono ormai amiche, confidenti, ma in realtà Alma non è altro che un riflesso illusorio dell’ego di Elisabeth, la sua fragilità e la sua debolezza messe a nudo. Un’illusione ottica del subconscio la quale prende forma, diviene reale e si materializza, provocando sensazioni nuove e sconosciute.
”Si può essere un’altra persona nello stesso momento?”.

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Elisabeth, d’altro canto, non è altro che un desiderio forte e passionale di Alma. Quest’ultima, vorrebbe essere lei, divenire fisicamente e mentalmente l’altra per poi lasciar scomparire sé stessa. Ciò, i desideri, il riflesso di ognuna, li si vedono nella scena più famosa di tutto il film, quella finale. Entrambe in contrapposizione, entrambe sovrapposte e una dentro l’altra e creano l’estasi, l’unione.
La scena della bruciatura della pellicola ci mostra chiaramente il delirio, il punto di rottura tra le due donne.
”Ho bisogno che tu parli con me”.

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Alma.

Elisabeth ha rivelato in una lettera i segreti di Alma alla dottoressa e le due donne hanno uno sconto fisico. Alma, minacciando l’altra con l’acqua bollente, la porta a tirar fuori delle parole dalla bocca, finalmente. Ella ha parlato, la paura e l’angoscia l’hanno spinta a reagire nello stesso modo in cui l’hanno spinta ad ammutolirsi. Ma lei, non fa altro che ridere e Alma è ferita, ancor di più nell’animo. Un contrasto di sentimenti tra le due, continua ad unirle.  ”Si può vivere senza parlare per non mentire?”, perché la verità fa male ‘‘Fingi così bene di essere sana che tutti ci credono, tutti meno io, perché so quanto sei corrotta”, dice Alma a Elisabeth.

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La contrapposizione

Elisabeth si allontana, mentre Alma continua a ricercarla e implorarle perdono. Elisabeth significa troppo per lei ed ella stessa perde la propria dignità. E si abbassa, non essendo niente, non valendo nulla. Tutto… pur di avere il perdono di Elisabeth, il suo affetto, la sua reazione. Alma ha bisogno del contatto, della presenza di Elisabeth, si sente sfruttata, come uno straccio passato sui vetri sporchi. Il suo desiderio di Elisabeth come presenza è talmente forte che diviene Elisabeth lei stessa: perché in realtà una è l’altra.
Alma è Elisabeth ora ed è corrotta, perfida, insensibile. Parla a sé stessa creando un’altra sé. E’ una mera proiezione del subconscio medesimo.

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Ora sono un tutt’uno, ora si comprendono, ora si uniscono, si mescolano. Questo parallelismo fra di loro le porta all’unità estrema fino a perdere la propria identità. Un’analisi delle differenze sociali, sfociano in un amore omosessuale disturbato e in un gioco di menti contorte incrociate.
Elizabeth in realtà, ha avuto una maternità indesiderata che è la principale causa del suo stato. Ella ha maledetto il suo bambino, causa della rovina della sua immagine, della sua vita. Al contempo, Alma abortì e perse un figlio, non desiderato.

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Ed è proprio il non desiderare i lor bambini, che le lascia intersecarsi a vicenda. Esse entrano tra di loro fino a perdere il contatto con la realtà.
E’ proprio durante l’ammissione che le due personalità si intrecciano, fino a non comprendere più quale sia la reale dimensione in cui vivono. Fino a creare un dolore spasmodico. La luce e l’ombra sono la rappresentazione visiva della contrapposizione tra le due donne. E il bambino, nel prologo e nell’epilogo, è il subconscio che gioca con la sua figura: la mente.

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Il bambino, il subconscio.

 

L’ analisi di Vincenzo Politi 

 

La parola ‘persona’ deriva dal Latino ‘personam’, termine usato in riferimento alla grandi maschere di legno indossate dagli attori del teatro classico.

Tali maschere non erano realistiche; i tratti e le espressioni del volto, anzi, erano esagerate, quasi caricaturali, in modo tale da consentire agli spettatori di poter capire il carattere di un personaggio e il suo ruolo nelle vicende raccontate immediatamente, guardando la maschera indossata dall’attore già dal suo ingresso sulla scena. Il termine ‘personam’, a sua volta, deriva da ‘per’ (attraverso) e ‘sonar’ (risuonare), in quanto le bocche delle maschere teatrali erano incise in modo tale da far risuonare, e quindi amplificare, la voce degli attori. E non è un caso, infatti, che quando si interpreta un ruolo si dice che si sta ‘impersonando’ qualcuno altro da sé, dandogli voce. Il termine ‘persona’, in definitiva, si avvicina molto al termine ‘personaggio’.

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Ma fino a che punto una persona è qualcuno che interpreta un personaggio e non, piuttosto, qualcuno che quel personaggio lo è diventato? Si può interpretare un personaggio così a fondo da trasformarsi in esso?
Esiste qualcosa che stia alla base, o che vada aldilà, dei personaggi che quotidianamente interpretiamo?
Esiste un’identità personale fondamentale, un’essenza, o siamo invece condannati a indossare maschere per dare voce al nulla sul palcoscenico dei nostri illusori teatrini esistenziali?!

È proprio sul problema, o persino sull’ambiguità, del concetto di identità personale che ruota il celebre film del 1966 di Ingmar Bergman. Film non a caso intitolato Persona e che, di nuovo non a caso, ha come protagonista Elisabet Vogler, un’attrice che ha smesso di parlare.
I medici di una clinica si interrogano su cosa ci sia alla base della misteriosa patologia di Elisabet, del suo inspiegabile mutismo.
Elisabet non dimostra alcun segno di disturbi fisici o mentali: semplicemente, e inspiegabilmente, non parla più.

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All’interno della clinica, Elisabet rimane una figura quasi austera, impenetrabile, rinchiusa in un silenzio che segna il solco della distanza incolmabile fra sé e il mondo. Rigorosa e solitaria, mantiene uno sguardo capace di essere sia penetrante che smarrito, in un modo che poteva essere trasmesso solo da quei gelidi laghi azzurri che sono gli occhi di Liv Ullman (forse l’attrice più prediletta dal maestro Bergman, che l’ha voluta al suo fianco a incarnare stupori e tremori dell’animo umano ben più di una volta).

L’unica cosa in grado di scalfire Elisabet, di ridestarla per un attimo dal suo sogno di solitudine, sembra essere il dolore fisico, carnale, il senso di mortalità — qualcosa di violentissimo e profondamente inquietante come le immagini, effettivamente sconvolgenti, del celebre monaco Tibetano che, in un estremo gesto di protesta contro la guerra nel Vietnam, si cosparse di benzina e si diede fuoco sul marciapiede di una via di Saigon, rimanendo imperterrito per tutto il tempo, seduto nella posizione del loto, senza urlare o rotolarsi istintivamente per cercare l’ultimo, disperato riparo dalle fiamme divoratrici. Rimanendo in silenzio.
Ma cosa significa, per una donna come Elisabet, un’attrice, rinunciare al linguaggio? Rinunciare al linguaggio significa non avere più la volontà di comunicare con gli altri, che a sua volta non significa altro che non avere la volontà di relazionarsi.

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Si recita sempre e solo per un pubblico, reale o immaginario che sia.
Rinunciare alla comunicazione significa rinunciare alla banale commediola quotidiana portata avanti e perpetuata grazie al linguaggio comune.
Quel linguaggio che ci fa chiedere ‘come stai?’ a gente di cui non ci importa nulla.
A rispondere ‘bene, grazie!’ anche quando non è così.
Quel linguaggio che si interpone fra le cose e noi stessi, modellando gli uni e nascondendo gli altri, e creando le nostre identità, i nostri ruoli, i nostri ‘personaggi’ di genitori, figli, mariti, mogli, ‘persone’.

Rinunciando alla comunicazione, Elisabet non può più recitare nessuno dei ruoli prestabiliti e preconfezionati dal linguaggio ed è costretta a guardarsi dentro, a cercare sé stessa, l’essenza più autentica del proprio essere.
La voce di Elisabet Vogler non può più essere amplificata, perché Elisabet Vogler ha deciso, appunto, di “gettare via la maschera”.
Seguendo un curioso approccio terapeutico, a Elisabet viene proposto di trascorrere un periodo di villeggiatura nella sua casa al mare, in compagnia, e sotto la supervisione, della giovane infermiera Alma, interpretata da Bibi Andersson, altra attrice feticcio di Bergman, qui chiamata a incarnare una specie di alter ego, forse più carnale ma forse anche più fragile, di una Liv Ullman mai stata così oscura. Ed è proprio in quella villa al mare, e attraverso le interazioni strane fra Elisabet e Alma, che si realizza il nodo concettuale di Persona.

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Da una parte, il mutismo di Elisabet è una ricerca solitaria di autenticità.
Elisabet, col suo silenzio, ha gettato la maschera, non è più un personaggio in cerca di autori, ammiratori o adulatori, ma un essere che ha rinunciato ai suoi stessi personaggi per andare alla ricerca dell’essenza di sé.

Dall’altra, però, proprio questo silenzio di Elisabet e la sua solitaria ricerca di autenticità sortisce effetti inaspettati anche su Alma.
È come se, frantumandosi contro quell’incrollabile barriera di silenzio, il linguaggio di Alma si purificasse da tutte le formalità, da tutte le convenzioni, finzioni e carinerie imposte dalla conversazione inautentica. Infatti, dopo poco tempo Alma sorprenderà sé stessa a confidarsi con Elisabet, raccontandole parti di sé che non erano mai emerse con nessun altro, parti di sé che erano a lungo rimaste ben nascoste “dietro la maschera”.
Quello che succede fra Elisabet e Alma è qualcosa di enigmatico e terribile.
Sicuramente, fra le due donne si instaura una specie di ‘contro-transfert’ che porta al ribaltamento del rapporto medico/paziente — al punto che Elisabet, che in teoria è quella che dovrebbe essere curata, sembra diventare la terapista, o quasi una ‘guida spirituale’, per Alma.

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Ma è anche qualcosa di più profondo e inquietante, che Bergman ci descrive in una serie di inquadrature memorabili in cui il volto della Ullman si sovrappone a quello della Andersen, quasi come se non ci fosse soluzione di continuità, come se i due volti si fossero fusi in uno solo. In un certo senso, infatti, Elisabet e Alma diventano una persona sola. Rinunciando al linguaggio, Elisabet si riappropria del proprio corpo, ne investiga la superficie e i limiti grazie al contatto con il corpo di Alma, attraverso contatti fisici che sembrano quasi coreografie sciamane, riti mistici. Non solo.

Gettando le maschere delle loro identità inautentiche, le due donne scoprono, in un certo senso, di essere fondamentalmente e essenzialmente la stessa persona.
Sembra quasi che Bergman voglia appunto dirci questo: in fondo, siamo tutti la stessa persona, è solo che indossiamo maschere diverse, interpretiamo personaggi diversi. Ma la realtà è che
possiamo essere nessuno e possiamo essere centomila solo perché, alla base, siamo tutti quello stesso uno.

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Se non che, proprio Bergman, con diabolica maestria, rimescola le carte in tavola e ci conduce a rimettere in discussione la (presunta?) autenticità di Elisabet. Chi è, veramente, Elisabet?
Un’attrice stanca della finzione, sia a teatro che sul palcoscenico della vita?
Un’artista in piena crisi creativa e esistenziale?
Una donna sconvolta dalla violenza del mondo? O una persona senza scrupoli che non esita a manipolare gli altri come marionette?

E tutte le doppiezze e le ambiguità di Elisabet, appartengono veramente a Elisabet, alla “vera Elisabet”, o sono solo il frutto della paranoia crescente di Alma, sempre più smarrita in una dinamica che sembra esserle totalmente sfuggita di mano?!!
Bergman non offre delle risposte a queste (e a molte altre) domande.
Anzi, Persona costringe lo spettatore a porsi domande sempre nuove, fino alla fine, come se la ricerca dell’autenticità fosse un’impresa impossibile e infinita, che consiste in un eterno interrogarsi senza mai sapersi.

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Infatti, con Persona, Bergman si pone e ci pone anche dei quesiti di natura meta-cinematografica. È possibile parlare di autenticità attraverso qualcosa di così simulato e ‘inautentico’ come il cinema?
Il carattere meta-cinematografico di Persona diventa evidente in almeno tre punti chiave della storia.
Nei titoli di testa, nei quali, dopo una serie di immagini violente e pornografiche, vediamo un bambino che guarda uno schermo che rimanda l’immagine sfuocata di due donne (Elisabet e Alma?).
In una scena centrale del film quando, durante un litigio, la frattura del loro rapporto fra le due protagoniste si accompagna, visivamente, alla frattura del materiale filmico di cui loro stesse sono composte.
E alla fine, quando una sempre più confusa Alma sembra essere diventata, o essere sempre stata, un’attrice che interpreta un ruolo in un set.
E alla fine di Persona continuiamo a domandarci: che cosa abbiamo visto, “veramente”?
Due persone?
Due personaggi?

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La rappresentazione della realtà o la rappresentazione di una rappresentazione?
Uno specchio che riflette un altro specchio?
E un film che prova a palesarsi in tutta la sua finzione è davvero così diverso da quel susseguirsi di maschere, ombre cinesi e battute prestabilite che ci ostiniamo testardamente di chiamare “realtà”, illudendoci ogni giorno come se fosse il primo e mai l’ultimo?!!
Persona è uno dei film più importanti nella storia del cinema. Bergman riesce a essere surreale anche servendosi della recitazione naturalistica delle sue due grandi attrici, davvero impareggiabili nel fondersi e nel confonderci senza esclusione di colpi. Il risultato è un film dal toni avant-garde ma dai dialoghi realistici e che seguono una struttura narrativa tutto sommato classica. Un film che è in realtà un piccolo Vaso di Pandora, e che ti accompagnerà a lungo.