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Vice, l’uomo nell’ombra – La recensione

Tre anni dopo  “La Grande Scommessa”, Adam McKay torna sul grande schermo scegliendo di scavare nuovamente in un pezzo di storia americana. Ma non è più la crisi economica, questa volta è il ritratto duro (ma fortemente romanzato, come spiegato all’inizio della pellicola) del vicepresidente Dick Cheney, l’eminenza grigia dell’amministrazione Bush. Appunto, l’uomo nell’ombra.

Come può un mediocre, un “Average Joe” dedito all’alcool e alle risse, diventare l’uomo più potente degli Stati Uniti? McKay parte da queste premesse per raccontare l’ascesa di Cheney al potere, nella determinazione non solo sua ma anche e soprattutto della moglie Lynne. La quale, all’ennesima notte passata a menar le mani in un bar dopo aver alzato un po’ troppo il gomito, lo minaccia con un dentro o fuori che lascia poco margine di scelta: o cambi rotta o me ne vado.

Da lì, per amor proprio e della moglie, Cheney inizia a scalare la montagna. Prima giovane stagista alla casa bianca, portaborse nientemeno che di Donald Rumsfield, poi deputato del Wyoming fino al crollo del castello di carte con l’avvento dell’amministrazione Reagan, la partenza di Rumsfield per l’Europa ed una carriera politica che sembra accantonata.  Seguono incarichi in società private e la volontà di restare sottotraccia anche per amore della figlia Mary, omosessuale, la quale diventerebbe un bersaglio troppo facile in una eventuale campagna elettorale.

Ennesima prova camaleontica di Bale.

Sembrerebbe la fine – in effetti nel film lo è a tutti gli effetti, con finti  titoli di coda e tutto il resto – ma il capolavoro di Cheney deve ancora arrivare: è infatti con George W. Bush (uno strepitoso Sam Rockwell) che tesse la propria trama. E come nella pesca tanto amata e palese metafora degli eventi politici che lo accompagneranno per tutta la vita, lo scaltro Dick aggancia lo sprovveduto Bush Junior all’amo.

Cheney diventa così un Vicepresidente plenipotenziario, burattinaio di un uomo probabilmente incapace di svolgere il proprio lavoro  e primo fautore della guerra in Iraq. Ma anche di ciò che essa portò  in termini di  violazione dei diritti umani e costituzionali, con le torture ai prigionieri iracheni e le vicende di Guantanamo, nonché lo spionaggio dei cittadini americani per questioni di sicurezza.

Lynne e Dick Cheney.

McKay torna quindi con un film non facile: ma la genialità di Vice,  pellicola sicuramente poco digeribile se girata in maniera didascalica e tradizionale, sta nel suo ritmo dissonante, nei suoi continui flashback, nei pannelli di spiegoni e nei finali a sorpresa. Riutilizzando lo scheletro usato per “La Grande Scommessa” (altro film non certo semplice), il regista natio di Philadelphia mette in campo soluzioni ingegnose – come la scelta di un narratore atipico per raccontare le vicende di Cheney – per rendere chiaro e limpido il cinismo di questo uomo nell’ombra e di tutta l’amministrazione nei momenti più delicati della storia americana. Emblematica, in tal senso, la scena dove le atrocità della guerra irachena vengono presentate come pietanze in un ristorante di lusso – con cameo di Alfred Molina.

In questo cast eccezionale, meritano menzione particolare i due protagonisti principali.
Monumentale Christian Bale: per lui ennesima prova da trasformista che con ogni probabilità gli regalerà più di qualche premio. Ottima anche Amy Adams, moglie e motore di Cheney in una sindrome del Macbeth quanto mai riuscita.

Articolo a cura de La Sposa