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Cattive acque (Dark Waters) – La Recensione

“Non mi tirerò indietro e impedirò a questo mondo di trascinarmi giù, so cosa è giusto e ho solo una vita.”.

Così canta Johnny Cash sulle note di I Won’t Back Down alla fine di Cattive acque (Dark Waters). Basato sull’articolo del New York Times Magazine del 2016 The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare scritto da Nathaniel Rich, la pellicola, è qualcosa di più di un semplice legal thriller. Cattive Acque, che porta la firma d’autore di Todd Haynes,  è stato definito un “lone-crusader-against-the-corrupt-system film”. In effetti la pellicola si inserisce in un prolifico filone di film crociata contro la corruzione del sistema. Nello specifico contro l’operato eticamente e moralmente discutibile della DuPont, colosso chimico responsabile del Teflon.

Similmente ad Erin Brockovich e A Civil Action, i protagonisti sono antieroi improbabili. Spesso gente comune. Burocrati che prendono a cuore una causa, mettendo a rischio la propria vita e carriera al fine di smascherare le magagne di turno.

Questo Dark Waters riesce con sobria eleganza a restituire una storia doverosa e commovente.

Il film fa della sottrazione la sua arma vincente. Non c’è infatti una parola o una scena di troppo. Nessun virtuosismo, tecnico o narrativo. Coerentemente a ciò, anche una recitazione molto composta ed essenziale di tutti gli attori: Anne Hathaway, Tim Robbins, Victor Garber, Mare Winningham, William Jackson Harper e Bill Pullman

I riflettori sono però puntati tutti su Mark Ruffalo in stato di grazia. Il suo Robert Bilott è un avvocato realmente esistito, un uomo qualsiasi con problemi comuni. Un uomo messo a dura prova da 20 anni di indagini e processi che hanno messo a nudo le responsabilità e i crimini della multinazionale. Parliamo di un’avvelenamento delle falde acquifere di Parkersburg nella Virginia Occidentale, ma che a causa dell’uso di questo materiale altamente tossico nella vita quotidiana (in particolare le padelle antiaderenti) è diventato “affaire” di portata mondiale.

Per Todd Haynes si tratta di un passo anomalo e inaspettato nella sua filmografia. Film sensibili alla LGBT, (Poison, Carol), rimandi alla classicità di Douglas Sirk (Lontano dal paradiso) e soprattutto al servizio della musica (Velvet Goldmine, Io non sono qui).

Il regista affida al suo fedele direttore della fotografia Edward Lachman, il compito di raffreddare ogni inquadratura. Il risultato è una ossessiva dominante autunnale, quasi funerea e carica di spettrali paure. L’autore rimanendo fedele allo script firmato da Mario Correa e Matthew Michael Carnahan, sacrifica i suo vezzi stilistici. Haynes si mette al servizio di una pellicola-denuncia che colpisce allo stomaco, soprattutto per l’orgoglio delle parti in causa.

A testimonianza di ciò la partecipazione come comparse di molti dei protagonisti reali di questa lunga vicenda iniziata alla fine degli anni ’90 e conclusasi solo di recente.