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Quando l’artista non è un artista: Il Grande Capo di Lars von Trier

Lars von Trier è divenuto celeberrimo per il suo stile estremamente provocatorio, per una regia molto frammentaria, fatte le dovute eccezioni, ed un montaggio a tratti singhiozzante, elementi che lo hanno reso un artista tra i più discussi di sempre. Gli due ultimi aspetti raggiungono il proprio apice nel 2006, quando dirige una commedia intitolata “Il Grande Capo” (letteralmente, “il direttore di tutto”, Direktøren for det hele).

La storia riguarda il proprietario di un’azienda informatica, Ravn, che, essendo un uomo essenzialmente debole e codardo, si finge un semplice impiegato che fa da tramite tra un fittizio “grande capo” e i dipendenti, essendo così libero di prendere tutte le decisioni che vuole senza attirare su di sé le ire dei lavoratori. Quando decide di vendere l’azienda ad un imprenditore islandese “danofobo”, Finnur, ingaggia un attore disoccupato, Kristoffer, per interpretare il ruolo di grande capo. Questa situazione già di per se grottesca viene resa ancora più surreale dalla caratterizzazione dei dipendenti, tutti sopra le righe, che genereranno situazioni comiche veramente efficaci.

L’Automavision crea immagini sbilanciate.

In questo film fa il suo debutto una tecnica di ripresa chiamata automavision, che consiste nel lasciare decidere ad un computer che tipo di movimento di macchina effettuare e cosa inquadrare. Tutto ciò si traduce in immagini molto spesso sbilanciate e sgradevoli da vedere. Si tratta di un film che si potrebbe definire “anti-cinematografico” e “post-cinematografico”, poiché tutte le regole della grammatica filmica vengono ignorate, distrutte e superate, sin dal primissimo secondo del film, quando lo stesso von Trier (che è anche la voce narrante) appare riflesso in una finestra mentre sta seduto su un dolly, dietro una macchina da presa: scavalcamenti di campo frequentissimi, volti degli attori spesso relegati ad una piccola porzione dell’inquadratura o, addirittura, tagliati dai bordi del frame.

Il fatto che la regia sia, fondamentalmente, affidata ad un computer rende tutto il film un mero prodotto da fabbrica: l’”artisticità” (se ci è permesso un tale neologismo) dell’occhio umano non ha più alcun valore. L’arte diventa una pura questione di dati informatici. Anche il montaggio, così come la regia, non dipende più dalla mente umana ma da quella computerizzata e propone un enorme uso di jump cut (tagli di montaggio in cui la posizione e la locazione della macchina da presa non cambiano) e di tagli sgradevoli e stranianti.

Con questo strambo esperimento, Von Trier ha voluto liberarsi dal controllo che l’ artista ha sulla propria opera, perché, come disse lui stesso, “Io sono un uomo al quale piace controllare le cose e se non posso controllarle totalmente preferisco non controllarle per niente”. In questo modo, von Trier supera, come mai aveva fatto prima di allora, anche il dogma che, undici anni prima, lui stesso, insieme all’amico e collega Thomas Vinterberg, avevano ideato: pur considerando fondamentale il momento, l’istante, non esiste più l’ artista e, di conseguenza, non esiste più l’arte. Il computer diventa il genio, i circuiti informatici diventano i sensi che, tramite i dati, ideano il gusto estetico dell’opera.

Il riflesso di von Trier all’inizio del film.

Capisco benissimo che, sulla base di quanto scritto, non sia ben chiaro se sia un film che vale la pena di recuperare: per quanto mi riguarda, assolutamente sì. E’ un film che va visto sia da chi guarda film per puro intrattenimento, sia da chi è solito ragionare circa il valore artistico di un film e cerca di creare una propria cultura e filosofia cinematografica. Un solo aggettivo può anche solo sperare di descrivere “Il Grande Capo”: geniale. Geniale come Lars von Trier.

Articolo a cura di Federico Querin