Home Rubriche Outsider A Private War – La Recensione

A Private War – La Recensione

“David Blandy è passato al Telegraph prima che io arrivassi, ed è stato ucciso due anni dopo a San Salvador. Joao Silva ha perso entrambe le gambe a Kandahar lavorando per il New York Times, ero con lui in Afghanistan. Sahafa Bushaj, lei era una ragazzina palestinese di 12 anni, un proiettile vagante le ha perforato il cuore, ho visto i suoi genitori abbracciarla mentre moriva dissanguata, con gli orecchini di perla ai lobi, probabilmente pensava di essere bella quel giorno. Vedo queste cose, perché voi non dobbiate farlo.”

Forse in questo monologo è meglio racchiuso il senso ultimo di questo film omaggio alla giornalista statunitense Marie Catherine Colvin.

Corrispondente dall’estero per il quotidiano britannico The Sunday Times sin dal 1985, Marie ha visto tanti morti sulla sua strada professionale. E’ stata in mille e più paesi, assistendo ai più importanti e drammatici conflitti degli ultimi 30 anni. Afghanistan, Libia, Sri Lanka e ovviamente la Siria. La sua storia o parte di essa, viene raccontata in questo solido “A private War”, (docu)film firmato da Matthew Heineman. Non un regista qualsiasi, questo giovane e promettente autore americano, ma uno che si è fatto le ossa realizzando documentari come Escape Fire nel 2012 sul sistema sanitario americano. Quindi Cartel Land del 2015 sul cartello messicano del narcotraffico. Lo scorso anno ha firmato City of Ghosts la storia di un gruppo di giornalisti/cittadini siriani che affrontano la vita sotto copertura.

E’ sembrata dunque una scelta opportuna quella di farlo esordire in un film di fiction con questo biopic, adattamento cinematografico dell’articolo Marie Colvin’s Private War, uscito nel 2012 su Vanity Fair e scritto da Marie Brenner.

La forza del film sta sicuramente nell’approccio documentaristico del suo regista, ma anche nella verità di fondo dei temi trattati, nell’etica del lavoro e nei sacrifici personali di chi mette la propria missione professionale davanti alla propria vicenda umana. La pellicola diventa così, non soltanto un reportage di guerra ma un’intima riflessione sulle conseguenze psicologiche di questo inferno professionale. Il disturbo da stress post-traumatico (DPTS), l’alcolismo, la difficoltà di avere una vita normale e dover guardare sempre avanti, oltre e alla ricerca di qualcosa che non potrà mai essere realmente toccata con mano.

“Raccontare una guerra può servire a qualcosa?” dice Marie.

C’è spazio anche per la voce dei siriani che ancora oggi non vedono fine al loro incubo: “Tutti sanno che ci massacrano eppure ci chiamano terroristi”. Nella diffusa e crescente ignoranza occidentale che identifica il popolo mussulmano con il fondamentalismo islamico. Come dire che ogni siciliano è mafioso.

Ma soprattutto c’è lei Rosamund Pike, per anni considerata troppo bella per essere anche brava. In una delle migliori prove viste quest’anno, l’attrice britannica salvifica la propria prestazione attoriale, attraverso la mortificazione del suo corpo. Carne al macello per una performance da Academy (ma inspiegabilmente esclusa dalle candidature).

Questo potrebbe essere uno spoiler, ma è in realtà la storia: Marie Colvin è morta a Holms in Siria il 22 febbraio 2012, mentre raccontava una delle più tragiche malattie umanitarie e politiche di questo decennio. Ma lei e i 500 mila civili siriani morti da quel giorno ad oggi, in realtà sono stati uccisi dalla nostra indifferenza, da giochi di potere e dagli interessi economici e politici del mondo occidentale, che vanno avanti da secoli. Mentre noi, che Dio, o chi per lui, abbia pietà di noi, riusciamo a dire solo: “aiutiamoli a casa loro”.