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C’era Una Volta Sergio Leone

Nel 1937 incombe sul mondo e sulla Roma fascista, il secondo conflitto mondiale. Da una parte c’è la fierezza statuaria della “Roma del Foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini” e dall’altra c’è la Roma del “volemose bene e annamo avanti, dei pizzicaroli dei portieri, quella Roma dove non c’è lavoro, dove non c’è ‘na lira, quella Roma der còre de Roma”.

Sempre dalle parole e dalla voce rauca e compianta del grande Remo Remotti. E’ la Roma trasteverina che c’ha i “regazzini” che giocano su e giù per la scalinata di Viale Glorioso. Tra di loro ce ne sono due che frequentavano la stessa scuola elementare. Uno si chiama Ennio e ha una grande passione per la musica e l’altro si chiama Sergio ed è figlio di un famoso regista del cinema muto e di un’attrice romana di origini austriache. I due fanciulli si perderanno di vista per oltre trent’anni.

Leone e Morricone nel 1937

Sergio dopo tanta gavetta, entra nel mondo del cinema. Prima come comparsa in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, poi come aiuto regia per le grandi produzioni americane. Parliamo degli anni d’oro di Cinecittà e di Roma città aperta ai dollari statunitensi. La chiamavano la Hollywood sul Tevere. Sergio lavora sul set di film come Quo vadis? di Mervyn LeRoy (1951) e soprattutto il colossal Ben-Hur di William Wyler (1959). E’ diretta proprio da lui la celebre scena della corsa delle bighe. Il suo nome, anzi il suo cognome Leone (che eredita dal nome d’arte del padre) non appare mai nei crediti di questi film. Così come incomprensibilmente non viene menzionato neanche quando, sempre nel 1959, dopo aver collaborato alla stesura della sceneggiatura, subentra a Mario Bonnard, alla regia de Gli ultimi giorni di Pompei.

Niente. Nessun credit, nessuna firma, neanche un grazie, solo un po’ di soldi, un pugno di soldi, con i quali Sergio va in viaggio di nozze con la moglie.

Il regista decide quindi di mettersi in proprio e nel 1961 dirige Il Colosso di Rodi, ancora un peplum movie, ma è l’ultimo, intuendo la fine di questo prolifico filone cinematografico. Il regista romano decide allora di cimentarsi in un’operazione di rilancio del western, dando vita ad un italianissimo sottogenere, noto con il nome di spaghetti-western.

Sergio Leone, Margarita Lozano e Clint Eastwood sul set nel 1964

Il primo film dell’ideale “trilogia del dollaro” si chiama Per un pugno di dollari. Sul set Sergio si ritrova faccia a faccia con un tipo mingherlino che avrebbe dovuto curare le musiche del film. Si chiama Ennio Morricone, proprio lui, il suo compagno di classe, l’amico delle scalinate di Viale Glorioso.

Ennio lo riconosce per una tipica smorfia sul labbro del compagno e Sergio invece lo invita a cena e poi al cinema. E’ il 1963, l’anno del Vajont, del primo Governo Moro, un gelato costava 100 lire, ma con 30 ti portavi via un ghiacciolo. Roma in programmazione c’è ancora un film di Akira Kurosawa, La sfida del samurai. Leone si era fatto tradurre la sceneggiatura in italiano, per poi lavorarci insieme a molte persone, tra cui Duccio Tessari e Fernando Di Leo, che firmeranno la script finale. Rispetto alla pellicola del maestro giapponese, il film di Leone ha un’altra ambientazione e altri dialoghi. La struttura narrativa però è volutamente identica. Leone lo sa e avverte la Jolly Film sulle pericolosità legali. Quelle che accade dopo in realtà è avvolto nel mistero. Certo è che la società di produzione finirà col cedere il 15% degli introiti a Kurosawa.

La sfida del samurai (Yojimbo) di Akira Kurosawa (1961) e Per un pugno di dollari di Sergio Leone (1964)

Morricone ovviamente cura le musiche con lo pseudonimo di Dan Savio (ma in alcuni titoli è rinominato Leo Nichols). In fondo anche Gian Maria Volonté appare con il nome John Wells. Per non parlare dello stesso Leone che si fa chiamare Bob Robertson, inglesizzazione del vero nome del padre Roberto Roberti.

La scelta dell’attore protagonista è complessa. C’è la possibilità di avere James Coburn, ma le pretese economiche della star sono eccessive. Il sogno del regista è quello di ingaggiare Henry Fonda, ma l’agente dell’attore neanche gli propone il film, mandando un telegramma a Leone: “Una cosa del genere Mr.Fonda non la farà mai”. E poi c’è Charles Bronson. Lui è già famoso, il regista lo apprezza e la produzione se lo può permettere, ma l’attore ritiene la sceneggiatura modesta e non adatta a lui. Dirà anni dopo: “Semplicemente pensai che fosse uno dei peggiori copioni che avessi mai visto. Quello che non capii fu che la sceneggiatura non faceva la minima differenza. Era il modo in cui Leone l’avrebbe diretta che avrebbe fatto la differenza.”

La scelta ricade su un certo Clint Eastwood mediocre attoruncolo televisivo. Uno che, come diceva lo stesso Leone, aveva solo due espressioni: “con il cappello e senza cappello”.

Ma attenzione, Leone è giovane ma non sprovveduto. Il regista sa bene che quella maschera, quel monolitico attore, con un semplice movimento del sopracciglio e col suo ghigno, può catturare l’attenzione dello spettatore, fino alla fine del film. Una maschera, un’icona.

Per un pugno di dollari presenta già alcuni degli stilemi tecnici che renderanno Leone celebre in tutto il mondo, come i suoi suggestivi close up sui dettagli. Quentin Tarantino anni dopo avrebbe coniato un espressione da rivolgere ai suoi tecnici. Il regista di Knoxville era solito urlare “give me a Leone”, ovvero “datemi un Leone”, proprio per indicare questo marchio di fabbrica del maestro romano.

John Woo ha detto di non aver mai amato i dialoghi e per tal ragione di considerare Leone come uno dei suoi autori preferiti. Ed è vero, nei film del maestro si parla poco. Ma quando qualcuno lo fa, è una sentenza. Per un pugno di dollari d’altronde lo ricordiamo ancora oggi per citazioni come “colpisci al cuore Ramon” o “se un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto”.

Finito il montaggio Leone sente ancora la mancanza di un qualcosa. Chiede allora al suo amico d’infanzia Ennio, un’altra canzone. Ennio gli propone una sua vecchia riscrittura di Pastures of Plenty di Woody Guthrie. Ma senza la linea melodica e con un semplice fischio. Morricone chiama un suo vecchio amico Alessandro Alessandroni, scoperto da Nino Rota qualche anno prima. Ennio: “A Sà, viette a fà na fischiatina”. Si, perchè Alessandroni oltre ad essere stato un eccellente musicista, sa fischiare come un colibrì.

Resta il fatto che quelle immagini, quella ghigno e quel fischio, rappresentano ancora oggi una delle eccellenze della storia del cinema italiano.

Per un pugno di dollari è anche un film molto politico, violento e tecnicamente impeccabile. Una pellicola che lancia la carriera di Leone. Grazie alla “trilogia del dollaro”, Leone diventa famoso in ogni dove, seguita dalla “trilogia del tempo” conclusasi nel 1984 con la realizzazione di quelli che in molti considerano la vetta più alta del suo cinema, il sontuoso C’era una volta in America.

C’era una volta in America (1984)

E’ proprio negli States che Leone ha raccolto plausi e riconoscimenti (ma niente Oscar). Lui e la patria del cinema di genere erano uniti dall’idea della settima arte come intrattenimento da botteghino al fine di veicolare messaggi più nobili. Un rapporto goffamente inibito dalla scarsa dimestichezza del regista con la lingua inglese, che ha creato non pochi fraintendimenti sul set, ma che gli ha anche salvato la vita. Curioso è infatti l’aneddoto sul suo rifiuto di prendere parte ad una mondana serata organizzata da Sharon Tate nella tristemente nota villa al 10050 Cielo Drive. Leone declinò gentilmente, sapendo che sarebbe stato noiosamente isolato dalle barriere linguistiche. Mai avrebbe immaginato il sanguinoso epilogo “mansoniano” di quell’evento.

Il destino però non fu altrettanto clemente con lui 20 anni dopo, il 30 aprile del 1989, stroncato da un infarto a soli 60 anni e all’apice della sua maturità artistica.

Claudia Cardinale e Sergio Leone sul set di C’era una volta il West nel 1968

Oggi, esattamente a 30 anni dalla sua morte, suonano così le parole di Claudia Cardinale, che con lui ha lavorato in C’era una volta il West: “Per me, il cinema è proprio lui: Sergio Leone. Amava davvero questo lavoro, questo gioco, questa meravigliosa finzione”.

La parola gioco sembra ritornare spesso quando si parla di Leone. Come quando, quasi per gioco (e per amicizia) produsse i primi film di Carlo Verdone, intuendone il talento comico. Mai Leone ha perso il gusto del divertimento per questo mestiere, l’amore per il cinema di genere, mai l’innocenza e la franchezza quasi adolescenziale con gli altri e con sé stesso.

Non è un caso che a Trastevere proprio su quelle scale dove Ennio e Sergio giocavano ogni giorno, oggi c’è una targa dov’è incisa una frase del maestro:

«Il mio modo di vedere le cose talvolta è ingenuo, un po’ infantile, ma sincero. Come i bambini della scalinata di Viale Glorioso».